La perla sanguinosa. Emilio Salgari
la famosa perla sanguinosa, rubata anni or sono nella gran pagoda di Candy, dove serviva di terzo occhio alla gigantesca statua di Godama.»
«Una perla sanguinosa!» esclamò Will.
«Sì, ma di ciò vi parlerò in seguito, – disse il malabaro. – Fu al Nigamuwa che conobbi per la prima volta Juga, mentre stavo esplorando quei banchi perliferi.»
«Chi era costei?»
«La più bella fanciulla cingalese che io avessi veduto fino allora, così bella che tutti la invidiavano. Suo padre era pure un pescatore di perle e quando s›accorse che i nostri cuori si erano compresi e che battevano insieme d’egual affetto, non oppose ostacoli e lasciò che ella diventasse la mia fidanzata, purché m’impegnassi a versargli duecento rupie come prezzo del matrimonio.»
«Avevo già raggranellato la somma e credevo di essere ormai vicino alla realizzazione del mio sogno, quando un avvenimento inaspettato distrusse d’un colpo tutte le mie speranze.»
«Si celebrava a Candy la festa di Godama e tutti gli abitanti delle coste partivano in pellegrinaggio pel monte Hamales, sulla cui cima, come voi sapete, esiste un albero consacrato al dio dei cingalesi e dove si vede l’impronta d’un piede gigantesco che si suppone lasciato da lui, slanciatosi di lassù in cielo, dopo le novecento e novantanove sue metamorfosi.»
«E che noi europei riteniamo sia un’orma lasciata da Adamo prima di abbandonare quell’isola meravigliosa, ritenuta il famoso paradiso terrestre, e di passare in India,» disse il quartiermastro sorridendo.
«Il padre di Juga, – continuò il malabaro, – fervente buddista, mi aveva chiesto il permesso di condurre a Candy la mia fidanzata perché assistesse alla grande processione e ricevesse la benedizione del dio ed io glielo avevo concesso, non prevedendo che quella gita sarebbe stata fatale a me ed alla fanciulla. Ahimè! Non doveva più tornare la diletta del mio cuore.»
«Te la rapirono?»
«Sì, ma ascoltatemi, signor Will. Dopo le feste di Candy, suo padre volle seguire i pellegrini che si recavano a visitare il famoso albero di Annarodgburro, che secondo le tradizioni antiche un uragano trasportò da lontani paesi, e che sprofondò colà le sue radici per servire di ricovero a Godama. In quel luogo vi è una pagoda celebre, dove riposano gli antichi rajah di Candy che hanno meritato di essere ammessi in quella terra santa per aver innalzato templi e statue in onore del dio protettore dell’isola, e che è abitata da sacerdoti e da sacerdotesse che vengono scelte fra le più belle fanciulle cingalesi.»
«Per procurarsi quelle sacerdotesse, i monaci attendono il giorno in cui viene condotta in processione la statua colossale di Godama, quindi si cacciano fra gli spettatori, scegliendo le fanciulle che meglio a loro talenta, e che sono destinate a diventare le spose del dio.»
«Nessuno può resistere loro, né le rapite, né i parenti e nessuna protesta varrebbe a salvarle. Una volta afferrate da quei monaci sono perdute. D’altronde i parenti si tengono anzi onorati che le loro figlie vadano a servire il dio, credendo di assicurarsi la protezione del cielo, la remissione dei peccati ed un posto nel nirwana dopo la morte.»
«Sfortuna volle che uno di quei tiruvamska – così si chiamano i sacerdoti cingalesi – adocchiasse Juga, che stava a fianco di suo padre. La sua bellezza e la sua giovinezza avevano già attirato l’attenzione dei vicini, sicché, ad un gesto del tiruvamska, quattro o cinque pellegrini si gettarono sulla mia fidanzata, trascinandola verso un carro dove già si trovavano altre future spose di Godama.»
«Alla sera era già prigioniera nella pagoda. Suo padre, spaventato dagli orribili castighi che i sacerdoti gli minacciavano in questa e nell’altra vita, aveva dovuto dare il suo consenso. Quando tornò alla costa per informarmi di quanto era avvenuto, non era più che un’ombra di se stesso, tanto era stato il suo dolore nel vedersi privare della sua unica figlia che amava alla follia, e tanto soffriva di doversi presentare a me con quella terribile notizia. Morì tre giorni dopo di crepacuore ed io fui lì lì per smarrire la ragione. Caddi ammalato e rimasi parecchi giorni fra la vita e la morte.»
«Appena guarito partii per Annarodgburro, risoluto a strappare a quei monaci la mia Juga. Riuscii infatti una notte, mentre sulla montagna imperversava una furiosa bufera, ad introdurmi nella pagoda e a trovare la fanciulla amata.»
«Credendo che nessuno mi avesse veduto, la trassi fuori dal tempio dove ci aspettavano due veloci cavalli, quando fu dato l’allarme. In meno che non si dica mi vidi piombare addosso una dozzina di monaci, che mi strapparono a viva forza la fanciulla.»
«Cieco di rabbia, trassi dalla fascia il mio coltello di pescatore di perle. Colpii due o tre volte, all’impazzata, ma fui ben presto atterrato, disarmato e legato.»
«Quindici giorni dopo venivo consegnato alle autorità inglesi di Colombo, sotto l›imputazione d›aver ucciso un sacerdote e di averne feriti altri due. Ogni difesa fu vana. Fui condannato a dodici anni di relegazione e condotto in questo inferno.»
Il quartiermastro l’aveva ascoltato senza interromperlo. Posò una mano sulla spalla del povero malabaro, che si era accasciato e piangeva in silenzio, dicendogli con voce dolce:
«Noi fuggiremo, Palicur, e andremo a liberare la fanciulla.»
«Sarà un›impresa difficile, signore, – rispose il malabaro con voce spezzata. – Bisognerebbe che io ricuperassi la perla sanguinosa.»
«Ma che cos’è quella perla? E che cosa c’entra in questa storia?» Palicur stava per rispondere, quando in fondo al corridoio si udirono dei passi pesanti che s’avvicinavano.
«I guardiani, – disse il quartiermastro. – Brutto segno.»
In quel momento la porta si aprì e tre sorveglianti guidati da un sergente, armati tutti di fucili colle baionette inastate, entrarono nella cella. Dall’aspetto severo e dal volto accigliato del sergente, i due forzati capirono subito che non spirava buona aria per loro e che quella partita di pugni non doveva essersi arrestata al capitombolo del Guercio.»
«Pigliate quell›uomo,» disse il capo, indicando il malabaro.
«Dove volete condurmi?» chiese Palicur, con voce tranquilla e guardando ironicamente i quattro guardiani.
«A farti assaggiare le delizie del gatto a nove code, – rispose il capo. – Venticinque colpi che ti accarezzeranno le spalle, e ti insegneranno a rispettare i tuoi compagni di lavoro.»
«E soprattutto, le spie, – aggiunse il quartiermastro della Britannia, beffardamente. – Sono persone sacre quelle!»
«Chiudi il becco, tu, – gridò il capo, e sii contento di non provare anche tu le nove code.»
«E il Guercio mi terrà compagnia almeno?» chiese Palicur, il quale non dimostrava alcuna apprensione per la terribile condanna che gli era stata inflitta.
«Non occuparti del 304.»
«Già, perché è un protetto del direttore nella sua qualità di spia.»
«Basta! – gridò il capo, alzando minacciosamente il pugno. – Presto, legate questo pappagallo mal dipinto.»
Il malabaro, udendo quelle parole, si alzò a sedere, mandando un urlo di furore.
«Sappi, sergente, che l›uomo che tu hai chiamato pappagallo è un discendente dei rajah di Calicut, di quei rajah che diedero tante terribili lezioni ai tuoi compatrioti, prima di venire dispersi per l’India.»
«Ma ora non sei che un forzato.»
«Condannato quasi innocente. Se ho ucciso era nel mio diritto.»
«Già, tutti dicono così; sempre innocenti, – disse il capo ghignando. – Lesti!»
I tre guardiani staccarono le catene fissate agli anelli del tavolato e liberarono le gambe del malabaro, il quale con un balzo fu subito in piedi.
«Eccomi, – disse, – ma giuro su Sivah che se quel maledetto cingalese non condividerà la mia pena, appena rimessomi in gambe lo ucciderò.»
«E noi ti impiccheremo, – rispose il sergente, – così avremo due bricconi di meno da