La tigre della Malesia. Emilio Salgari
vennero rimontati e gli alberi rialzati assicurandoli colle manovre vecchie e coprendoli con nuove vele di ricambio.
Vennero prese anche misure contro un nuovo attacco potendosi dare che quantunque la notte fosse oscura la fuga venisse scoperta, ricominciando così la battaglia che né il prahos né l’equipaggio sarebbero stati capaci di sostenere.
Non avendo che un solo cannone, essendo stato l’altro smontato assieme alle spingarde, venne rizzata dinanzi una barricata con tronchi d’albero e botti ripiene di terra onde proteggerlo. Alle otto, nel momento che il sole precipitava all’orizzonte, tutto era pronto per la fuga; non restava che spingere il prahos nell’acqua. La nave da guerra aveva da un’ora cessato il fuoco che non otteneva altro vantaggio che quello di bombardare le foreste e si era portata al largo sicura che in quella notte i pirati non avrebbero tentata la fuga.
Alle nove un pirata fu mandato da Sandokan fino alla costa. Attraversò le foreste e ritornò assicurando che l’incrociatore dormiva all’âncora. Era il momento scelto senza aspettar la mezzanotte in cui di solito si tentano le fughe o gli attacchi e il nemico veglia forse più attentamente d’ogni altra ora.
– Andiamo – disse Sandokan abbandonando il suo posto. – Silenzio assoluto, soprattutto.
Egli fece un leggero cenno a Sabau. Bastò.
Quindici pirati entrarono nell’acqua e con una scossa spinsero il prahos nel fiume.
CAPITOLO V. Il ferito
La notte, come aveva predetto Sandokan, era più oscura della bocca di un forno spento. Non si vedeva a venti passi lontano, tanto erano fitte le tenebre che parevano scese appositamente a favorire la fuga del prahos.
Non luna in cielo, non stelle che si riflettessero sulle acque, non quel chiarore che proiettano le nubi quando l’astro delle notti risplende sopra di esse. Appena appena si distinguevano i tronchi d’albero della foresta lontana al più dieci metri sulle due rive. Confusi gli uni cogli altri, curvi o raddrizzati, messi là come tanti muti spettatori, formavano colla massa del cupo fogliame una oscurità ancor più densa, in mezzo alla quale il prahos scivolava silenziosamente seguendo il filo dell’acqua.
I soli rumori che si udissero erano i lievi cigolii dei timoni giranti sui cardini, il tremolar delle alte frondi appena, appena agitate da un soffio profumato dell’est, il gorgoglio dell’acqua che si frangeva dolcemente sulle sponde, il grido rauco degli animali notturni vaganti sotto le foreste in cerca di preda e il respiro degli uomini che se ne stavano sdraiati sulle tavole del ponte, coll’occhio fisso verso il mare, l’orecchio attento per raccogliere i minimi rumori del largo e le mani raggrinzate anziché tese sulle armi, che avevano finito di scintillare dopo l’ultimo lume spento a bordo.
Il prahos scendeva la corrente lentamente, ma tanto da bastare per guadagnare in meno di cinque minuti il mare e per non far il minimo rumore che potesse svelar la silenziosa fuga. Si teneva sulla riva destra, rasentando colle cime degli alberi le frondi sporgenti della foresta.
Sandokan e Sabau, entrambi ai timoni, confusi fra tre o quattro tronchi d’albero che servivano di difesa a quel punto sì importante, rattenendo il respiro, guidavano la silenziosa navicella con mille precauzioni, cogli occhi dilatati come cercassero una preda nascosta fra i giunchi della riva.
Il prahos che continuava a scendere, d’un tratto si arrestò, dopo un breve strofinio. Sandokan, indovinando che l’ostacolo non poteva essere che una secca, non batté ciglio.
– Arrestati? – domandò Sabau, con un fil di voce. – V’è il nemico alla foce?
– Non è nulla; lascieremo subito la secca – rispose Sandokan.
L’equipaggio, quantunque ignorasse la causa, non si mosse. Solo si udì che armavano le carabine, mentre gli uomini di prua, camminando come fantasmi, si curvavano sul cannone di già bell’e carico.
– La marea monta – disse Sandokan dopo qualche minuto di silenzio occupato a osservare le acque.
– Il tempo passa. Non si potrebbe por mano ai remi? – mormorò il Malese.
– È inutile, il rumore è pericoloso nel luogo ove ci troviamo. Non vedi tu nulla sulla sponda opposta?
– Nulla, fuorché la massa nera della foresta. Il nemico non sospetta di nulla.
– Bene, aspettiamo!… – E Sandokan senza dire una sillaba di più, aspettò che la marea montasse.
Passò un quarto d’ora, poi si udirono dei fremiti a prua, qualche scricchiolio sotto la chiglia, poi il prahos, sempre in silenzio, tornò a galleggiare. A una parola gettata sottovoce da Sandokan agli uomini della manovra, una piccola vela dipinta a nero come le tenebre, un fiocco, fu spiegato sul bompresso. Il legno filando appena qualche miglio all’ora, superata la barra delle scogliere e gl’isolotti di sabbia visibili sol per l’onda che ci gorgogliava attorno, uscì tacitamente in pieno mare.
– Il vascello? – domandò Sandokan, cacciando la barra un po’ all’orza.
– Eccolo laggiù, a mezzo miglio sopravvento. Dorme all’âncora – mormorò Sabau.
– Ah, il furfante ha preso il largo adunque? Bene, peggio per lui; il campo sarà più vasto.
Il legno da guerra aveva cautamente frapposto più di mezzo miglio fra sé ed i pirati, pei quali pareva avere le sue paure, quantunque li avesse completamente fiaccati. Dormiva all’âncora ma non del tutto; i fanali di posizione brillavano al loro posto e dalla ciminiera usciva qualche scintilla, che andava perdendosi fra l’alberatura seminascosta in un pennacchio di fumo appena visibile. Vi era da credere che la fuga riuscisse.
Il campo era vasto; si poteva scendere al sud, o salire per qualche miglio al nord, e per quanto i cannocchiali da notte fossero puntati, si poteva sfuggire alle indagini e anche a un inseguimento.
– Tutto va bene – mormorò Sandokan sogghignando. – Il diavolo è con noi, come direbbe il mio buon fratello Portoghese. Saremo a Mompracem ancor prima che il miserabile se ne accorga.
– Si può gettare da un lato la prudenza? – domandò il Malese che si rodeva dall’impazienza.
– Oibò! Coprirsi di vele potrebbe essere pericoloso. Il bianco col nero contrasta.
Il vento era debole, ma il mare perfettamente tranquillo e oscuro come fosse un mare d’inchiostro; il prahos sotto la sua piccola vela, si mise a filare direttamente all’ovest, tenendosi un mezzo miglio al sud dal vascello, la cui macchina brontolava.
Pareva che tutto dovesse andare a meraviglia, grazie l’audace manovra del corsaro e l’imprudenza del nemico che nel momento in cui si doveva maggiormente vegliare, abbandonava il posto. La distanza fra Labuan e Mompracem non è molta, tutta riducendosi a 60 miglia, che con vento e con remi manovrati dalle braccia di ferro dei fuggiaschi, dovevansi fare in una notte o poco più. Si poteva al mattino trovarsi in vista della costa amica, che equivaleva alla completa riuscita; che montava se l’incrociatore dava la caccia alle spalle?
Al primo colpo di cannone tutti i pirati di Mompracem sarebbero usciti sui loro prahos in mare e per quanto filasse il piroscafo e facesse ruggire le bocche dei cannoni, non avrebbe certamente potuto sfuggire a quel formidabile assalto dei più arditi pirati dell’intera Malesia.
Sandokan, sempre al timone accanto a Sabau, misurava la distanza che lo separava dall’incrociatore visibile solo pei suoi fanali di posizione e per la sua mole. Contava metro per metro, cercava di poter scorgere ciò che succedeva sul legno nemico, fremeva d’impazienza e di collera, e allontanandosi ruggiva in cuor suo di dover abbandonare quella preda colossale. Quel singolar uomo quasi quasi dolevasi di fuggirsene così silenziosamente come un ladro notturno. Avrebbe desiderato qualche colpo di cannone, un abbordaggio e infine una pugna corpo a corpo, una vendetta soddisfatta, quando avesse pur da ricevere una scheggia di mitraglia attraverso il corpo. In quei momenti, egli credeva di essere tanto forte da poter distruggere da solo quell’equipaggio sei volte più numeroso e i suoi uomini dividevano i medesimi pareri. Un all’arme non sarebbe stato accolto che con un urlo di gioia.
Il prahos a poco a poco sotto nuovi soffi di vento, che spiravano dalla