Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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al cielo gliela partecipa Dio.

      I coperchi degli avelli romani sollevati dalla voce del Capitano del popolo non si sono richiusi; come tante bocche aperte gridano: – codardi! eroi da teatro! a Roma non si va che con ardimento romano.

      Roma venne tratta dinanzi come l’arco di Ulisse; bisogna curvarlo o morire. O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca.

      Ma intanto che i fati si compiono, bisognerebbe che gl’intelletti divini imprendessero due compiti, pure aspettando d’imprendere il terzo. – Roma un dì ebbe il popolo; – a ripigliarsi Roma, giorno e notte si travaglia il popolo; – il popolo, in avvenire prossimo, si acquisterà Roma. Pertanto alla Italia adesso farebbero mestieri tre uomini, Omero, Macchiavello, ed Erodoto… il guerriero ci è.

      Omero per consolare con la luce del canto le anime di coloro i quali da tutte parti d’Italia convennero a Roma a fare la prova con documenti di sangue, che la Città eterna è patrimonio degl’italiani.

      Macchiavello per insegnare con quali modi i popoli caduti ritornino in fiore, e come i deboli devano adoperare per rifarsi gagliardi; – e più ancora chiarire le menti, che ogni disagio deva sopportarsi a patto di costituirci nazione. Se il Demonio, o volesse, o potesse venire al mondo per istrascinare nel suo inferno Papa, e Borbone, e di ogni risma stranieri, ben venga il Demonio; noi lo saluteremo: Demonio I rè d’Italia; purchè venga armato di ferro, e di fuoco.

      Erodoto, il fortunato, il quale poichè la Italia andrà famosa di battaglie come quelle di Maratona, di Platea, delle Termopili, di Salamina, e di Mycale, potrà sotto la ispirazione delle Muse dettarne la Storia, e leggerla al popolo fatto per entusiasmo divino nelle Olimpiadi e nelle Panatenee nostre.

      Le storie dei grandi gesti scritte dal popolo, solo la Immortalità accetta e ripone dentro i suoi archivi; dalle altre, dettate da gente di corte e venduta, ella ritira le mani come da cosa immonda.

      Ora in Italia dov’è Omero? Dove Macchiavello? In qual terra nacque Erodoto? E lasciamo questi ingegni magni da parte.... dov’è chi accenni portare sul capo la fiammella del Paracleto fra noi? Come l’uccello, secondo la stupenda similitudine di Dante, che su l’aperta frasca fisa la plaga di oriente pure aspettando che sorga l’alba, io mi volgo da tutti i quattro venti, smanioso di vedere sorgere la luce nuova di faccia a cui gl’ingegni nostri diventino quale si fa il lume di candela quando splende il sole nella gloria dei suoi raggi; ma, ahimè! da lungo tempo io lamento il secolo apparirmi simile all’uffizio della settimana santa dove al finire di ogni salmo spengono un cero; ed oscurata la chiesa, si annunziano poi le tenebre con le battiture.

      Senza paura, come senza offesa io lo dirò; non basta la gagliardìa; anco i gladiatori erano forti; e corre gran tratto tra coraggio, e coraggio; anco i gladiatori erano animosi, e sostentavano la vita per darsi la morte dinanzi ai Quiriti. La vita consolata da affetti, decorosa di sapienza, pura da colpa è sagrifizio degno della Patria; chi butta là la vita bestiale, fastidiosa, e contaminata offre alla Patria la offerta di Caino. I sommi capitani in antico comparvero eroi però che con lo intelletto intendessero e col cuore sentissero quello perchè combattevano, e palpitassero prima per la Patria poi per loro; nè le armi, già instituto di vita o fine delle azioni, bensì, mezzo o via per tutela della Patria, e della famiglia. Cincinnato, compita la guerra, ripigliava il solco interrotto nel campo paterno. Oggi, si corre dietro a’ gradi della milizia al pari che dietro una prebenda, e il divario, che occorre tra un capitano e un canonico, gli è questo: che uno si procaccia il vivere con la spada, d’altro, se lo procura col breviario, onde se non trovi canonici che abbiano genio di capitano, ti occorrono qualchevolta soldati che arieggiano anco troppo del canonico; nè questo giudico il peggio. Le armi appartate dal vivere civile, e sceme di dottrina, e piene di presunzione tu reputa addirittura minaccia non sostegno di libertà; il soldato ignorante e il mastino della tirannide. Erodoto, Senofonte, Socrate, Epaminonda di Tebe, Arato di Sicione capitani furono e filosofi; la spada in tempo di pace mettevano per segno in mezzo alle pagine dei libri della sapienza, però, quando ne la traevano fuori non si correva pericolo che senza accorgersene essi l’adoperassero a danno della Patria, e in pregiudizio della Libertà. La milizia incivile ha educato fra noi gente misera a un punto e contennenda; poichè non la menò diritto al canonicato, fastidisce i lavori dagli studii rifugge, irrequieta sempre e bisognosa di sommovere le acque per pescare nel torbido; al contrario di quanto disse stupendamente il Danton, si porta la Patria sotto le suola delle scarpe.

      Morte degli studii onorati, come del senno politico, del senso morale, di tutto che compone l’onesto vivere civile il mestiere dei Giornalisti. In questa maniera di scrittura convennero la mediocrità astiosa, la calunnia che si vende, la presunzione ventosa, insomma quanto di più volgare, e di più tristo deturpa la razza umana. La più parte dei Giornali, macelli di malacarne, dove i quarti della coscienza degli scrittori tu vedi appesa ai ganci per ritagliarsi a minuto. E’ par bello ai dì nostri vendere a peso, e a misura ciò che altra volta avrebbe condotto sopra la panca dell’accusato; chè, appunto quegli che fu commesso alla custodia della legge, e all’onore dei cittadini paga co’ denari del pubblico i laceri contro la legge, e l’onore dei cittadini. Gli è il saturnale dei maestri di scuola senza scolari, di causidici senza liti, di medici senza ammalati, di ghiottoni di ogni risma; ai quali larvati dell’anonimo sembra grazia, ch’era follia sperare, rifarsi dell’astio contro cui per virtù, o per ingegno, o per servizi resi alla Patria primeggia; sfogare lo infinito veleno che gli affoga; industriarsi ad avvilire altrui onde abbiano gaudio della propria viltà Giornalismo sifilitide schifa della Libertà. – Cristo! che alluvione di pantano si distese per tutta la Italia.

      E Cristo, tuttochè mansuetissimo fra le creature, quando gli occorse il tempio contaminato dai pubblicani e dai rivenditori, a colpi di flagello li cacciò via dal portico; e vendevano mercerie, o commestibili; i Giornalisti poi vendono la coscienza, e non mica nel portico sibbene dentro il tempio, anzi nel santuario, dove impugnato il corno dell’altare della Libertà, in nome della Iddia pretendono asilo.

      E tuttavia come cosa barbara gli asili antichi abolironsi, e chi vi rifuggiva s’ingegnava sottrarsi alla pena di delitto commesso, e forse gli rimordeva la colpa; ad ogni modo costui o non poteva o male rinnovare la colpa mentre i Giornalisti abbracciano l’ara della Libertà per continuare impuni i misfatti; nè di altro sentono rimorso, che di non avere fatto peggio.

      Per tema di offendere l’altare nel colpire il nefario, che lo abbracciava quando tenni in mano la scure del potere, aborii adoperarla; nè me ne astenni solo, bensì curai, che i diari infesti e pieni d’ingiustizia liberamente si propagassero: non sono vanti questi ma verità, e fossero vanti, veruno può contrastarmeli; però, molto meno privato cittadino devo adoperarmi a restringere per anticipazione l’esercizio liberissimo delle facoltà dell’uomo; tanto però ho chiesto, ed in tanto insisto, che ogni scrittore apponga il nome sotto il suo scritto; questo impongono la giustizia e la buona morale, e dacchè gli scongiuri mossi a custodia di cose siffattamente necessarie non sortirono l’effetto desiderato; intervenga la legge e comandi; pei trasgressori metta le pene. Ai liberi uomini sconviene camminare come i topi nei cunicoli; e quando troppi, rodendo le staminare al buio pongono in pericolo la nave, il marinaro li leva di mezzo con la stufa. – Nè mi acqueto punto all’obietto, che in fondo al Diario occorre il nome del Direttore il quale malleva di tutto, perchè il Direttore sta lì per finzione, nè si può disprezzare altrui per finzione, e molto meno trovo giusto punirlo; e poi sovente il Direttore si sceglie per la ragione, che natura ed arte gli foderarono la faccia di zinco sopra ogni altra creatura umana; non potrebbe toccare mai a cittadino onorato peggiore fortuna, che prendere briga con taluno di quelli che si appellano Direttori di Giornali; chi con le mani ignude vorrebbe raccattare lo scorpione…?

      Anco questo il popolo si abbia per segno di Libertà verace; – il cessare la compra e vendita delle coscienze co’ danari spillati dal sudore del popolo per difendere le colpe e gli errori dei governanti, e per assassinare i cittadini dabbene. Da sè il Governo libero e degno di popolo libero si difenda aperto, franco, ed ardito, e cacci da sè lontano i sicarii; perchè, che cosa mai altro sono gli scrittori comprati se non sicarii della penna? Si, sicari della penna.

      E questo fu detto, e lo andremo ripetendo, finchè la esecrazione pubblica non gli abbia presi a sassi: ella è la morte dei lupi affamati; tornate, o paltonieri,


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