Vecchie storie d'amore. Albertazzi Adolfo
le lenzuola e, come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, co 'l riso su le labbra.
Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo per il letto e non riuscí a chiudere occhio prima d'essersi convinto che la prova la quale si era imposta era degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica e quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capí d'aver commessa un'imprudenza; credé fino d'aver commesso un grosso errore, fino un'azione puerile; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che guisa comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli dié ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parere eroica la deliberazione presa. Né si levò da letto; e quando furono a cercarlo disse: – Ho un gran peso qua – e segnava lo stomaco – ; non posso piú mangiare.
Il giorno dopo madonna chiese del valletto. – Non ingola nulla – risposero; né egli cedette ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dí una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo, ma egli chiudeva gli occhi e rifiutava; e anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primiticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina, tra altri ancora rossi ed in agresto. Egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse.
Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre egli ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra sé, disse:
– Tornerà il sire; ma non staremo allegri.
– Perché? – chiese con simulata indifferenza la padrona.
Rispose l'altro: – Ugo morirà: non gli va giú un granello d'uva.
Madonna Ginevra arrossí; si levò, e si recò alla cameruccia del valletto.
Stava il valletto con le pálpebre abbassate perché nel languore dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalí ai passi leggeri di madonna, riconoscendola.
– Valletto Ugo, dormi? – ella chiese dolcemente. Egli disse: – Per Dio, madonna, abbiate mercede di me!
A che essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: – Da me non avrai mai grazia nella maniera che domandi. Questa è la tua ricompensa al bene che ti vuole il sire? È questo l'amore che gli porti? Tornerà…
– Oh se tornasse! – sospirò Ugo, insensato piú che ardito.
E la dama: – Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!
– Ma non mangerò – conchiuse Ugo.
La dama uscí co 'l proposito di dire ogni cosa al marito a pena fosse giunto; se non che, mentre cuciva, cominciò a temere che egli la rimproverasse d'avere tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto: e a nascondergli la verità non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi, quand'ecco s'udí il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di piú ospiti.
«Chi sa – rifletté madonna Ginevra – che a vedere il padrone non lo domi la vergogna? Indurrò il sire a impaurirlo.» E quando nel tinello, dove su la tavola, imbandita co 'l piú ricco vasellame, fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie disse a lui: – È a letto da tre giorni, e non vuole piú toccar cibo. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.
Il marito volle andare a vederlo, ed essa lo seguí.
– Che hai? – domandò il sire entrando.
Ugo rispose: – Un peso qua, alla bocca dello stomaco; e non mi va giú niente.
– Non è vero! – ribatté súbito la dama. – Non è vero! Per il male che ha potrebbe mangiare. – Poi rivolta ad Ugo disse: – Ora io dirò al sire perché digiuni da tre giorni. Mangerai?
– Voi potrete ben dire. Io non mangerò – rispose quegli che raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta cosí franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie d'alcun torto verso Ugo. Ma Ginevra aggiunse:
– Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo… – ; onde il sire capí come il torto era proprio del ragazzo e – Perché? – le domandò impaziente. E la dama in vece tornò a chiedere al valletto: – Mangerai?
Il valletto, che era risoluto di morire, negò co 'l capo, sospirando. – Io mi spogliavo – proseguí la dama – e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi Imaginate!
– Insomma! – fece il sire.
– Mangerai? – ripeté la dama per l'ultima volta; e per l'ultima volta – No! – ripeté forte Ugo che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: – Mi richiese…; – ma il marito senza piú badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera scosse il braccio del valletto e gli gridò bieco: – Che cosa le chiedesti?
Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore rendeva ineluttabile: disperato amore, piú forte della morte; e madonna Ginevra ammirando tale fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sé e pe 'l valletto l'ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo era un bel giovane) concepí un'idea provvida e sagace.
– Mi chiese – rispose ella – il vostro falcone pellegrino, che non dareste né a conte, né a principe, né ad amico; e, per averlo, s'è impuntato a digiunare.
Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise e disse: – Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia. Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. – Ed uscí.
Ma la donna prima d'andarsene si fece piú presso ad Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:
– Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. – E meglio che con le parole promise sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza.
Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.
IL LEARDO
I
Nella notte, tra 'l gracidare delle rane e lo stridere dei grilli, gli amanti, che la fossa divideva, mescevano brame molte e piú promesse in lieve suono di parole, come di sospiri.
Essa stava a una finestra del castello; egli di qua dalla fossa, al margine ultimo. Cosí ogni notte, perché ser Lapo, l'avaro signore del Farneto, non consentiva l'amore della figlia con quel povero cavaliere che era Raimondo di Santelmo; e all'albeggiare Raimondo inforcava il suo fido e bel leardo, e Giovanna lo accompagnava con gli occhi intenti finché egli spariva per il bosco.
La boscaglia in quell'ora si svegliava e l'indefinita letizia della vita universale al far del giorno invadeva l'animo del cavaliere co 'l canto degli uccelli, l'odore delle erbe e degli alberi, la frescura dell'aria: sussurravano le foglie, stormivano le rame, cinguettavano le passere, chioccolavano i merli, strillavano le gazze: murmuri, palpiti, fremiti; voci e canti ed inni: un inno concorde e solenne di gioia e di grazie della natura universa al sole ed all'amore.
Il cavaliere non affrettava il cavallo. E le sembianze dell'amata, mal certe al suo sguardo durante il colloquio, allora gli s'avvivavano nell'imaginativa sí che rivedeva piú bella la donna; le parole di lei risonavano al suo orecchio piú dolci e piú distinte e, come voleva la letizia dell'ora, egli, che di lei non aveva per anche tócca una mano, ne sognava l'intero possesso con ingannevole gaudio. – Oh le morbide guance di rosa e le carni gigliate e fresche!
Ma la notte, traversando la boscaglia alla volta di Farneto, un'ambascia grave gli pesava su l'animo, e quanto piú disperava di un lieto fine al suo amore tanto piú ardeva dal desiderio di rivedere almeno e di riudire Giovanna