Tra cielo e terra: Romanzo. Barrili Anton Giulio

Tra cielo e terra: Romanzo - Barrili Anton Giulio


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Terre e l’uscirne non facevano divario alla vista. Maurizio, nondimeno, sentiva il mare vicino, lo sentiva alle acute fragranze e al romper dei marosi contro le rupi. Lo rivide sull’alba, il vecchio amico brontolone; lo rivide di là dal monte di Portofino, farsi a mano a mano più luminoso e più bello, a Recco, a Nervi, a Genova, e giù giù per tutta la quieta Riviera di Ponente, dove si aprono cinquanta seni azzurreggianti tra il verde, e su lembi sottili di candide spiagge cinquanta paesi si distendono al sole. Quanti porti e rade, e golfi e calanche, di cui Maurizio conosceva gli approdi! A Genova era vissuto parecchi anni collegiale, e tante volte c’era tornato ufficiale. Nella rada di Vado, ancoraggio sicuro, era andato una volta a rifugio colla sua cannoniera, cacciato per due giorni da un fortunale di libeccio. Quella costiera della Cornice tutta frastagliata da balze ferrigne, coi suoi fondi di turchino carico listato di smeraldo e sormontato di bianche creste spumose, come l’aveva in pratica! Ed era sempre là, il suo mare, ad ogni uscita di galleria, il suo mare azzurro, scintillante, superbo, il buon mare, il bel mare, a cui aveva tutto sacrificato per tanti anni, perfino l’amore, il grande, il forte, il supremo bisogno dei cuori.

      Non aveva egli dunque amato mai? Sì, aveva amato, ed anche incominciando per tempo; ma anche per tempo si era fermato. A quattordici anni aveva preso una cotta famosa per una sua cuginetta, splendidissima e formosissima bionda. Per moglie non sarebbe andata, avendo perfino un anno o due più di lui: ma chi bada a queste differenze, quando cantano gli anni adolescenti nel cuore? Quella stupenda creatura egli l’aveva veduta da bambino, e avevano giuocato insieme a marito e moglie: il «te ne rammenti?» era stato proferito con gusto al nuovo incontro, quando la cuginetta era venuta coi parenti a Genova, per salutar lui collegiale promosso agli esami finali e già presso all’imbarco desiderato. Ah, il bel giuoco di cui si ricordavano ridendo, ed anche arrossendo un pochino! Ma egli arrossiva anche d’un altro pensiero, che tanta bellezza fiorente gli aveva fatto nascere subitamente nell’anima. Perchè non si sarebbe ripigliata da senno quella condizione di marito e moglie che nove anni prima si era stabilita per giuoco? Ed egli già stava mulinando, in quei giorni di baldoria per le strade di Genova; studiava il modo di girare la frase, per dire alla cuginetta: aspettami due o tre anni, quanti i nostri parenti stimeranno che bastino, per… Ma la frase non gli veniva mai bene, come avrebbe voluto. E frattanto, una domenica all’Acquasola, dov’erano andati a sentir la musica, quella splendidissima e formosissima bionda che tutti ammiravano, gli aveva detto di schianto:

      – Sapete che non siete punto belli voi altri, con la vostra feluca? —

      Il «voi altri» andava agli ufficiali di marina. Maurizio non era ancora che un allievo, e non portava la feluca; ma l’avrebbe portata ben presto, nelle circostanze solenni. Perciò s’impermalì un pochettino, sentendo quella eresia, e guardò la cuginetta con aria di persona offesa.

      – Non siete belli, vi dico; – ribattè quell’altra, ridendogli ancora sul muso; – e tu starai male, cugino Maurizio. Neanche si capisce, quel vostro uniforme; non significa nulla. Perchè quella feluca nera, che non si può tenere ben salda sulla testa, che vi scivola sempre indietro, con uno di quei becchi d’anitra, in su, verso la luna, e l’altro in giù, che vi piove sulle spalle? perchè quello spadino al fianco, che par uno spiedo da infilzare i ranocchi? perchè quella coda di rondine, smilza smilza, che va a cercarvi i polpacci? Non si capisce, ti ripeto, quel vostro uniforme; non significa nulla.

      – È quello a un dipresso di tutte le marinerie europee. Lo ha portato Nelson, signorina.

      – E lasciatelo a Nelson, e vestitevi da cristiani. Guarda laggiù, quell’ussero di Piacenza. Che eleganza di vestiario! che armonia di tinte! e che aria marziale!

      – Ah sì, quello starebbe bene a bordo! – notò Maurizio, allungando le labbra, con aria di sublime disprezzo.

      – A bordo, non so; – ribattè la cugina, senza scomporsi. – Noi siamo in terra; per la terra giudichiamo gli uomini.

      – Dagli uniformi; – conchiuse Maurizio.

      Erano rimasti grossi per tutto il tempo della passeggiata. Quel giorno si separarono freddi. La notte, quando fu solo nel suo letticciuolo di collegiale, Maurizio pianse a calde lagrime il suo bel sogno svanito; ma con quelle lagrime gli si prosciugò la vena delle tenerezze. La cugina era una civettuola e una sciocca, vana della sua bellezza, felice d’esser guardata, e più fatta per godere gli omaggi della cavalleria che quelli della marineria. Gli ultimi giorni che ella passò a Genova non furono niente migliori. Maurizio era imbronciato, ed ella stette molto sulla sua. Ella partì per Nizza con la famiglia, ed egli s’imbarcò per il suo primo viaggio. Così finiva il romanzetto, a mala pena imbastito, così l’amor suo a mala pena sbozzato. Del resto, quella splendidissima e formosissima bionda, egli non aveva più avuto occasione di vederla. Quattro anni dopo, essendo egli di stazione a Montevideo, gli giungeva notizia che la cugina era andata a marito, passando anche a vivere in Francia. Buona fortuna, e figli maschi.

      Strano ragazzo, quel Maurizio! aveva giurato di non lasciarsi più cogliere a certe lustre, ed era stato di parola: il primo amore era anche l’ultimo. Parliamo del grande amore, s’intende, di quello che si crede veramente l’amore, il forte, il solenne, il poema della vita. Episodii, sì, ad ogni crociera, ad ogni viaggio sui mari lontani, ad ogni fermata nei porti patrii: ma presto gliene era venuta la nausea. Tutti giuochi, superficialità, scioccherie, quando non erano indegnità; e queste e quelle erano poi sempre offese alla gran legge dell’universo. «L’amore è un atto religioso» diceva egli volentieri, quando ne cadeva il discorso cogli amici; «come atto religioso, non va preso a scherzo». Ed egli era religioso, come è sempre nel fondo dell’anima il gentiluomo di mare. Chi vive meno nel consorzio degli uomini vive più intimamente con sè, e più spesso con Dio; con Dio, il cui spirito corre non visto sull’acque, cavalca le nubi della tempesta, si libra sull’arco dell’iride, si affaccia nella gloria del sole sorgente sull’oceano, siede nella porpora accesa dal grande astro al tramonto.

      Grandi cose, sul mare! Ed ora, abbandonato il vasto suo campo, sarebbe tornato alle cose piccine. Ma sì, così portava la necessità. Lo avevano voluto umiliare; aveva preferito spezzarsi. Non esagerava egli un poco? Forse; ma era fatto così. Obbedire gli piaceva, ma all’intelligenza, o alla probità che ne tien luogo, quando tra chi comanda e chi obbedisce aleggia l’idea del dovere morale. Altrimenti no; e per non dar scandalo brontolando, se ne andava via, spezzando la spada. Uno spiedo, dopo tutto; non glielo aveva detto quella formosissima bionda? Ed anche buttava la feluca a mare: galleggiasse a sua posta, e naufragasse al primo scoglio. Lassù, nella quiete della sua bicocca solitaria, avrebbe evocate le figure dei grandi ammiragli; buon metodo per dimenticare i piccini.

      Capitolo II.

      Alla terra dei padri

      Maurizio di Vaussana cessò finalmente di vedersi il mare da fianco. Era giunto alla stazione di Ventimiglia. Sceso dal treno, prese la via dei monti, dopo aver fatte caricare le sue valigie in una vettura da nolo. Quanto ai suoi bauli, aveva dato lo scontrino del bagaglio ai signori Rolandi, buona gente, amici vecchi di casa sua, che s’incaricarono volentieri di farglieli recapitare il giorno seguente a San Giorgio. E la vettura si mosse, partì con alto fragore di ruote, tintinnìo di sonagliere e scoppiettìo di frusta nell’aria polverosa, ma soprattutto con la gloriosa velocità di tutte le vetture da nolo, quando incominciano la corsa.

      – Sentirai la nostalgia del mare anche tu – aveva detto il tenente Maurizio al marinaio Susini. Per intanto, non doveva sentirla lui così presto. L’aria fine dei monti natali carezzava le guance del viaggiatore, ancora dorate dai soli africani. Quante balze conosciute gli occhieggiavano dall’alto, lungo la via serpeggiante! Le eriche, i pini, i ginepri, i roveri, i lecci, tutti conosceva Maurizio, a tutti sorrideva, come ad una brigata di vecchi amici, ritrovati dopo tanti anni di assenza. Ad una certa voltata ci doveva essere una macchia di fràssini, nascosta dietro il ciglio d’un poggio. I suoi ricordi non lo avevano tradito: vide, riconobbe i suoi fràssini, non molto cresciuti da quelli di prima, sempre eleganti, svelti, pieghevoli, che stendevano verso la strada i rami sottili, vestiti di foglie tenere, luccicanti al sole pomeridiano. E le ginestre del pian del Termine? Il piano, per fallire al suo nome, era una eminenza, e finiva in un dirupo; ma le ginestre erano sempre là, facendo siepe al ciglione, contente del galestro in cui avevano messo radice, portando


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