I rossi e i neri, vol. 2. Barrili Anton Giulio

I rossi e i neri, vol. 2 - Barrili Anton Giulio


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che corse sommessamente lungo le sponde della tavola.

      – Il comandante? – ripetè, ma più alto, una voce fessa e impacciata dal vino. – Viva il comandante, e si beva alla sua salute!

      – Zitto, Geremia! – gridò il Martini. – Tieni la tua parlantina per questa notte.

      – O come, sor tenente? voi togliete la libertà della parola? – chiese con un ridevole strascico di frasi il poco biblico Geremia. – Non siamo qui radunati per salvare la libertà, noi? La libertà è libera, io dico; viva la libertà! Parlo bene, o parlo bene? —

      Il comandante, a cui era rivolta questa burlesca domanda dell'ubbriaco (e lo dimostrava il gesto di Geremia, che accostava militarmente la palma rovesciata dalla mano alla visiera del caschetto), rispose asciuttamente:

      – Sì, avete ragione; ma se fate chiasso fin d'ora, darete la sveglia ai nemici, e non si potrà più far nulla, per questa povera libertà.

      – Ben detto! ha ragione il comandante! – soggiunsero molte voci.

      – Ma, io dico… – balbettava Geremia. – Io dico che l'uomo…

      – È ubbriaco! – proseguì un altro, daccanto al beone, dandogli sulla voce.

      – Ubbriaco io? io che ho bevuto appena tre bicchieri di vino?

      – Bevine un quarto, – interruppe il Martini, – e falla finita. Se ti garba, potrai andar sulla paglia, a tener compagnia al Tarlati, che russa come un contrabasso. —

      In quel mentre si udì picchiare all'uscio. Il Martini andò ad aprire, colle solite cautele. Erano altri cinque che giungevano al ritrovo.

      – Trentuno! – disse il tenente. – Vuol forse Ella che io vada a dare un'occhiata agli altri, nella cantina di rimpetto?

      – Sì, da bravo. Martini, andate! —

      E ciò detto, Lorenzo si diede a passeggiar per la camera, dopo aver accettato dalle mani di uno della brigata un bicchiere di vino, del quale non bevve altro che un sorso. Poco stante, fu di ritorno il tenente.

      – Orbene?

      – Ventiquattro laggiù, e con questi trentuno, cinquantacinque in tutto.

      L'animo di Lorenzo s'era già acconciato a questa mala sorte; epperò il giovane comandante non si fermò a fare altre malinconiche considerazioni sulla scarsezza del numero. Entrato in una cameretta attigua, insieme col Martini e col Fresia, chiamò i sott'ufficiali presenti all'appello, per far la nota dei congregati e dividere, come si poteva la meglio, le squadre. Erano smilzi manipoli, ma bisognava contentarsi. Quanto agli uomini che ancora potevano giungere innanzi l'ora della mischia, Lorenzo comandò che dovessero entrare nelle squadre meno numerose.

      Non dissimilmente si adoperò nella casa dirimpetto, dov'erano uffiziali il Nava e il Doberti. Intanto, i seduti a desco e i dormenti sulla paglia furono chiamati a star su, salvo tre o quattro che, non potendo reggersi pel vino cioncato, sarebbero stati d'impaccio anzi che d'aiuto ai compagni; e si venne alla distribuzione delle armi e delle cartucce.

      Parecchi si lagnavano che i fucili fossero grami. E certamente avrebbero potuto essere migliori. La più parte eran a martellina, colla pietra focaia; lo scatto in alcuni era troppo duro, e a far battere il cane sulla martellina occorreva il pollice di Alcide; in altri non c'era verso che volesse stare sulla tacca di riposo: tutti avanzi di botteghe di armaiolo, eredità di guardia civica, notevoli a vedersi per le fascette e i guardamani di ottone.

      – Ma questi son cassoni, non fucili! – diceva uno.

      – Che cassoni? – soggiungeva un altro. – I cassoni son buoni da ardere, e questi non farebbero fuoco neanco a scaldarli in un forno.

      – Ci vuol pazienza, amici! – diceva Lorenzo, che incominciava a perderla. – Voi sapete che la rivoluzione non è ricca; i fucili buoni potrete guadagnarveli là, dove andremo; ce ne sono di eccellenti.

      – Cattivo soldato, – aggiungeva il Martini, – cattivo soldato quegli che si lagna del suo fucile, quando ci ha una baionetta da poterci innestare! —

      In questi ragionamenti e in queste operazioni, erano giunte le dieci. E segnale nessuno! Parecchi incominciavano a mormorare. Che si fa? che si aspetta? Lorenzo aspettò ancora una ventina di minuti; poi, chiamato a sè uno dei più impazienti, lo mandò, con un suo biglietto, a chieder notizie al quartier generale.

      – Vado e torno! – aveva detto il messaggero. Ma un quarto d'ora passò; passò mezz'ora; suonarono finalmente le undici; e il messaggero, che s'era veduto andare, non fu visto tornare. Egli aveva fatto come il corvo dell'Arca.

      Allora il comandante fece quello che aveva fatto Noè; aspettò un altro poco, e pregò il Martini che volesse andar lui. Questi almeno sarebbe tornato.

      Frattanto i capisquadra duravano gran fatica a trattenere i loro uomini. Taluni più chiassosi (gente di malavoglia, diceva il Martini) se la pigliavano coi capi della rivolta, sbraitavano contro i vili che non erano venuti al ritrovo, e bestemmiavano, sacramentavano d'esser stati traditi.

      – Le bestemmie non colmano il vuoto; – diceva Lorenzo. – Cinquanta uomini volenterosi e gagliardi ne valgono cento. Quanto a ritardo, sapremo tra poco che cos'è; del resto, se avete voglia di fare, io ne ho quanto voi, e nasca quel che sa nascere, appena tornato il Martini, usciremo noi, la romperemo da soli! —

      Queste parole calmarono gli spiriti più irrequieti; che anzi, parecchi incominciarono a dire sommessamente che non c'era gusto a muoversi da soli, e, mentre tutti gli altri se ne stavano colle mani alla cintola, andare a morte certa pel loro bel muso. E questa fu in breve l'opinione di tutti. Ma non ardivano parlarne ad alta voce; il comandante, a cui forse non era sfuggito quel nuovo giro dei loro pensamenti, s'era fatto scuro nel volto come un'imposta chiusa; egli andava accarezzando con troppo amore il calcio della sua rivoltina, che portava nelle tasche della giacca, e bisognava star zitti. Ma allora fu un'altra scena; chi si doleva dell'aria soffocata di quel pianterreno, ermeticamente chiuso; chi si rimetteva a bere, per guadagnarsi la fortuna dei quattro o cinque, lasciati sulla paglia a dormire. I meno vergognosi, poi, imitavano gli scolaretti che non sanno durarla con un'ora di lezione, e chiedevano, per una ragione o per l'altra, di uscire.

      Finalmente fu picchiato all'uscio; era il Martini che tornava da far l'ambasciata, e, come la colomba dell'Arca, portava un ramoscello d'olivo. Il colpo era fallito; non c'era più nulla a tentare.

      La cosa parve strana a Lorenzo, che fu sollecito a chiamare in disparte il suo luogotenente, e a farsi raccontare ogni cosa per filo e per segno. Il Martini era andato senza risico, passando pei vicoli, e cansando le vie principali, fin dove gli aveva accennato il comandante. Colà egli non aveva potuto abboccarsi col capo, che stava a stretto colloquio con altri. Per contro, aveva parlato con taluni dello stato maggiore (e ne citava i nomi) dai quali aveva udito che non c'era più rimedio: che lo Sperone non s'era potuto prenderlo: che il presidio era tutto in armi, ed occupava militarmente le vie della città; che finalmente non c'era più nulla a fare, e ognuno pensasse a cavarsela.

      A Lorenzo non bastavano quelle notizie. Non che dubitasse del Martini, o che avesse fede nella possibilità del tentativo; ma, con una sì grave malleveria sulle spalle, voleva sincerarsi del contr'ordine, co' suoi occhi, colle sue orecchie medesime. Però, ceduto il comando all'ottimo popolano, e ordinato che la gente non si movesse dal posto, salvo il caso di suprema necessità (del resto il luogo aveva due uscite, l'una per l'andito che i lettori conoscono, l'altra dalla porticina d'un orto attiguo) uscì da quella casa per andare a sua volta al quartiere generale.

      Verissima in ogni parte la relazione del luogotenente; il colpo era fallito. E ciò saputo dalla bocca istessa dei capi, Lorenzo rifece con pronto passo la sua strada, per andare a sciogliere i suoi, che lo aspettavano. Passato speditamente per la via del Campo e la porta dei Vacca, entrò nella via lunga ed angusta di Prè, dove già tutte le botteghe erano chiuse da un'ora, ed egli non si abbattè in anima nata, salvo in qualche ubbriaco, che proseguiva in lunedì il tripudio vinoso della domenica.

      Così giunse alle spalle del palazzo reale; andò oltre; ma quando fu presso


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