Terra vergine: romanzo colombiano. Barrili Anton Giulio

Terra vergine: romanzo colombiano - Barrili Anton Giulio


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Barrili

      Terra vergine: romanzo colombiano

       Capitolo I.

      In alto mare

      Quelli de' nostri lettori che mettono il venerdì tra i giorni nefasti, sono pregati a non citare tra gli esempi a conforto della loro opinione il giorno scelto, o accettato da messer Cristoforo Colombo, per dar principio al suo primo viaggio di scoperta. Diciamo la loro opinione, e non la loro superstizione; primieramente perchè non vogliamo essere scortesi con nessuno, e in secondo luogo perchè non crediamo a questa facile asseveranza moderna che gabella per superstizioni le idee di cui non può darsi una ragione. Se dunque i nostri lettori hanno di queste idee, ed amano tenersele, non saremo noi che ci proveremo a combatterle. Uomini insigni con idee di tal fatta ce ne sono stati parecchi, e ce ne saranno ancora, se Dio vuole. Il savio, che vede assumer forma di verità e grado di certezza tante cose che ieri ancora sapevano di bugia, d'invenzione, d'illusione e via discorrendo, non bolla di nomi derisorii le cose che non intende, o che gli paiono escire dalla cerchia delle verità riconosciute: per contro, diffida di queste ultime, non s'impegna a sostenere che saranno verità domani, come sembrano oggi.

      Così ragionando, si può ammettere benissimo che ci siano dei giorni nefasti, o per tutti o per qualcheduno. Ma è permesso di credere che il venerdì, tanto calunniato, non sia tra quei giorni. Io, se debbo interrogare la mia particolare esperienza in proposito, ho il venerdì per un giorno buono. E per buono doveva averlo messer Cristoforo Colombo, che la mattina del 3 agosto 1492, essendo un venerdì, si avviava da Palos per il suo viaggio di scoperta, con tre caravelle, quasi con tre gusci di noce, e centoventi uomini d'equipaggio, tra marinai, soldati, ufficiali di bordo e sopraccarichi. Voi non ignorate che si chiamano sopraccarichi, in una nave, tutti i personaggi che ci sono imbarcati, senza avere un uffizio particolare, di comando o d'ubbidienza, nella nave anzidetta.

      Ben altri pensieri, ben altri dubbi e timori occupavano lo spirito del navigatore Genovese, che il terrore della partenza in venerdì. Due di quei gusci di noce erano stati presi ed allestiti per ordine regio, come a dire per forza. E per forza erano stati imbarcati in gran parte i suoi marinai. Un primo esempio di sorda resistenza gli aveva dimostrato come egli potesse far poco assegnamento su quella marinaresca, allorquando era stato male aggiustato alla Pinta il timone, per modo che al primo colpo di mare dovesse spiccarsi dalla poppa, mettendo la caravella in istato di non più governare. Oramai si era in acqua, e bisognava navigare. Ma non poteva ancora il mal talento studiarne qualchedun'altra, per far ritornare indietro le navi? La paura è tanto ingegnosa! E l'almirante del mare Oceano ricordava a proposito che un'altra caravella mandata celatamente dai Portoghesi sulla rotta indicata da lui, per rubargli la gloria della scoperta, non era tornata a Lisbona per poca voglia che avesse il suo comandante di andare innanzi, ma per deliberato proposito della ciurma ribelle.

      Una cosa era necessaria, perchè niente di simile accadesse a Cristoforo Colombo: che tra la sua piccola squadra navale e le famose colonne d'Ercole corressero leghe marine a parecchie centinaia. Ma come sperare che quei marinai, costretti a navigare per forza, si adattassero a fare, senza un tentativo di ribellione, parecchie centinaia di leghe? E se la ribellione ci fosse stata, e se le navi avessero dovuto dar volta, che vergogna per lui! quale impossibilità di tentare in altra occasione e con altre forze navali il viaggio! Egli, a buon conto, per non lasciare troppe armi alla resistenza della sua gente, aveva subito immaginato di non segnare sul libro di stima il numero esatto delle leghe percorse, tenendo il computo vero per sè. Ma quanti altri argomenti di rivolta alla sua autorità non avrebbe offerti la paura a quegli uomini rozzi, ignoranti, che egli aveva raccolti a furia, non scelti diligentemente tra i migliori della classe marinara?

      Queste cose pensava Cristoforo Colombo; e queste cose non lo facevano lieto, non gli lasciavano gustare pienamente, come avrebbe potuto e dovuto, il gaudio onesto della sua sudata vittoria su tante contrarietà, su tanta guerra d'uomini e cose. Nè i suoi sospetti erano vani. La mattina del 6 agosto, un lunedì, terzo giorno del viaggio, la Pinta fece il segnale di non poter proseguire il cammino, avendo spezzato il timone; proprio quel timone che sulla spiaggia di Palos era stato così male aggiustato alla poppa. Gomez Rascon e Cristoval Quintero, padroni della nave, che era senza fallo la migliore delle tre, tornavano dunque alla riscossa con le loro alzate d'ingegno?

      Del malvagio proposito non dubitava l'almirante, mentre governava verso la Pinta per recarle soccorso. Ma il vento soffiava gagliardo, il mare ruggiva, e con quel tempo era più facile investire la Pinta che accostarsi al suo bordo. Per fortuna, il comandante della nave era Martino Alonzo Pinzon, e questi non era della opinione dei padroni, in materia di parziali avarie.

      – Almirante! – gridò egli dal capo di banda, – non temete di nulla. Leverò io la voglia a tutti di guastare un'altra volta il timone, dandone la barra sulla testa al primo che parlerà di ritornarsene indietro. Per ora il timone sarà accomodato con quattro giri di gomena; e poi si vedrà. Magari zoppicando, seguiteremo la capitana. Ma io consiglierei, salvo il parer vostro, di appoggiare alle Canarie, per provvedere un po' meglio a questa rottura. —

      Non era intenzione dell'almirante di far sosta alle Canarie, come a nessun'altra isola o costa di quei paraggi. Ma bisognava chinar la testa al destino, e seguitare i consigli della prudenza. Il giorno appresso, non era più questione di prudenza, ma di assoluta necessità. La Pinta, di sicuro, era stata male raddobbata, e per il fasciame sconnesso incominciava a far acqua. La legatura del timone si era anche rallentata, e la caravella governava male da capo. La Santa Maria e la Nina dovettero diminuire la tela, per serrar meno vento, e andar di conserva con la povera zoppa. E l'almirante, non che risolversi di far sosta alle Canarie, pensò che gli sarebbe convenuto cercare laggiù un'altra caravella, per liberarsi da quella nave, che incominciava a parergli un vero castigo di Dio.

      Ma perchè andare alle Canarie? Quelle isole erano ancora molto lontane. Non era meglio ritornare indietro, coi due legni che ancora reggevano al mare, e sui quali si sarebbe potuto trasbordare tutta la gente e il carico della Pinta, perchè questa seguitasse come poteva, magari presa a rimorchio? Era questo il pensiero dei marinai, confortato dalla opinione dei piloti. Alcuni di essi, come Pedro Alonzo Nino e Sancio Ruiz della Nina, stimavano sicuramente di essere molto distanti dalle Canarie. Forse meno sincero, perchè più desideroso del ritorno, era Bartolomeo Roldan, altro pilota della Nina. Ma niente affatto sincero, e più caldo sostenitore della grande distanza, era Perez Matteo Hernèa, pilota della Santa Maria. Costui incominciava ben presto a far prova del suo mal animo contro il comandante supremo, che egli non si peritava di giudicare, sebbene ancor sotto voce, un ambizioso impostore.

      Ma il comandante della Pinta, della nave zoppa, aveva manifestato egli stesso il proposito di appoggiare alle Canarie, e per conseguenza di proseguire il cammino fin là. Con Martino Alonzo Pinzon, marinaio esperto e ben veduto dall'equipaggio, non si poteva lottare; specie quando minacciava di ricorrere agli argomenti ad hominem. Più calmo, ma più sicuro nella sua nautica dottrina, Cristoforo Colombo aveva detto: – V'ingannate, nella vostra stima; le isole sono anzi vicinissime. Tra domani o doman l'altro, le avvisteremo di certo. —

      Il fatto seguì com'egli aveva annunziato. Sull'alba del giorno nove, si scorgevano le vette della Gran Canaria. Disgraziatamente, ora per troppo vento, ora per troppo poco, non era possibile l'approdo. Si stette due giorni in attesa di una propizia occasione, ma invano; e l'almirante, non volendo perder tempo a bordeggiare in quelle acque, si lasciò addietro la Pinta, ordinando a Martino Alonzo Pinzon di approdare quando potesse, e di cercare un'altra nave, per dare il cambio alla sua. Egli intanto andava con le altre due caravelle alla Gomera, per il medesimo intento. E giunse alla Gomera nel pomeriggio del 12 agosto udendovi con sua grande consolazione che s'aspettava di giorno in giorno una buona nave, andata per l'appunto alla Gran Canaria.

      – Aspettiamo dunque con fiducia; – aveva detto l'almirante. – Se la buona nave è a quell'ancoraggio, Martino Alonzo l'ha trovata, l'ha presa, e viene con essa a raggiungermi. —

      Ma lo aspettò invano. E stanco di aspettare, partì il 23 per andare incontro al compagno. Giunse il 25 alla Gran Canaria. Martino Alonzo Pinzon non v'era giunto che il giorno prima, e stentatamente; udendo da quegli abitanti che la nave c'era stata, ma che da parecchi giorni ne era partita, nè si sapeva per dove.

      Bisognava rinunziare ad ogni speranza


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