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com'egli soleva chiamarli, dando loro le interiora, cuori e fegatelli di starne, lepri, ed altri volatili e quadrupedi, che erano stati feriti a morte dai rostri di quelle bestie valorose.

      – Optime, fili mi! Tu non hai nessuno che possa starti a paro. Nullus tibi se conferet heros, sebbene tu abbia già i sessanta suonati. Tò, mio dolce amico, questo è per te. —

      Queste parole, erano rivolte ad un bel falco randione, che mastro Benedicite s'era recato amorosamente sul pugno, offrendo alle sue allegre beccate uno spicchio di carne sanguinolenta. Era quello il beniamino dello strozziere, e degnamente rispondeva alla preferenza affettuosa di mastro Benedicite, facendo il fatto suo per modo da non toccargli neppure il sommo delle dita, e interrompendo ad ogni tratto il suo pasto (notate gran tenerezza) con un picciol grido di gioia e di gratitudine.

      – E tu, che fai costì, manigoldo? – borbottò poco stante mastro Benedicite, facendo la voce tanto ruvida, quanto era stata dolce dapprima. – Metto pegno che ancora non sarà nulla a suo posto, nè lunghe, nè cappelli.

      – C'è tutto, zio, ed ho anche ripulito per bene il pavimento; – rispose, senza scomporsi punto per quella infinita ruvidezza, un biondo adolescente, che era venuto allora a stringersi ai fianchi del vecchio falconiere.

      – E la lezione?

      – La so.

      – Tanto meglio per te, se tu di' il vero, fannullone. Orvia, sentiamo un tratto… Quante sono le generazioni de' falchi? —

      Il fanciullo stette un po' sopra pensiero; quindi rispose a mezza voce:

      – Sono sei…

      – Ah, ah! – gridò mastro Benedicite, in quella che proseguiva a dare il pasto alle sue bestie – certuni lo dicono, ma cotestoro, ragazzo mio, non sanno neanco l'abbicì della falconeria.

      – Sono sette; – si provò a dire il fanciullo.

      – Sette, sì certamente, sette e non sei. La prima?

      – Il randione.

      – Adagio, adagio a' ma' passi e non mettiamo il carro davanti a' buoi. Si va dal minore al maggiore, de minore ad majorem. Il primo legnaggio sono lanieri, che sono i più vani: molta apparenza e poca sostanza. E il secondo?

      – Il secondo, son quelli chiamati pellegrini.

      – Sta bene, e perchè?

      – Perchè persona non può trovare il loro nido; anzi sono presi come in pellegrinaggio, e sono molto leggeri a nutrire, cortesi e di buon'aria, e valenti e arditi.

      – Bene, bene! – borbottò il falconiere – e il terzo?

      – Il terzo sono falconi montanini, che si nascondono dappertutto, e quando son nascosti non fuggono più; il quarto falconi gentili; il quinto…

      – Non correr già a precipizio! Festina lente, ragazzo mio! Che cosa sono anzitutto i falconi gentili?

      Il fanciullo era rimasto a secco. La voglia di far presto gli aveva fatto perdere il filo.

      – Ma… – disse egli – i falconi gentili sono… sono…

      – Sono quel che tu non sai, per quanto io vedo. E quello che tu non sai, gli è che i falconi gentili sono nobilissimi, prendono la gru, e non hanno che un male, cioè di volar troppo lungo, per modo che si bisogna averne buon cavallo per seguirli, e quassù per i nostri greppi non approderebbero. Ora al quinto, e bada a non incespicare.

      – Il quinto – proseguì il nipote – son gerfalchi, li quali passano tutti gli uccelli della loro grandezza, e sono forti, fieri, ingegnosi e bene avventurati in cacciare e in prendere; il sesto è il sagro, molto grande e somigliante allo sparviero.

      – All'aquila! all'aquila! – interruppe mastro Benedicite. – Vedi mo', Anselmuccio, questo è appunto un sagro; o dove ti sembra egli che rassomigli allo sparviero? Quello che tu di' è l'astore, non già il falco sagro.

      – All'aquila; – soggiunse il ragazzo, risovvenendosi, – ma, degli occhi, del becco, delle ali e dell'orgoglio somigliante al gerfalco. Il settimo…

      Mastro Benedicite non aveva messo a tortura il nipote, che per farlo giungere a quel settimo.

      – Eccolo, il settimo, – interruppe egli con aria di trionfo – eccolo, il randione, cioè, il signore e re di tutti gli uccelli, che non è niuno che osi volare appresso di lui, nè dinanzi. Vedi, figliuol mio, tu lasci il randione contro qualsivoglia uccello munito di poderose ali, e non c'è verso di fuggirgli; cadono tutti tramortiti in tal guisa, che l'uomo li può prendere, come fossero morti. —

      E ciò detto, essendo finito con la lezione il pasto delle sue bestie nobilissime, mastro Benedicite si volse da capo al beniamino randione:

      – Non è egli vero, fili mi dilectissime, che voi siete uccello da cosiffatte prodezze? Or via, pigliate il cappello e buona notte. Salve tandem!

      Il falcone, con la mansuetudine di tutti i suoi pari, quando siano manieri, e stati da gran pezza a scuola sotto un buon maestro d'arte aucuparia, raffermò con moti quasi soavi le palpebre, si lasciò incappellare come un membro della confraternita della Morte, e coi geti annodati ai piedi si pose chetamente sul bastone a dormire.

      Ora, in quella che mastro Benedicite si metteva attorno agli altri falconi per far loro il medesimo uffizio, si affacciò sull'uscio della falconeria un famiglio.

      – Ohè, mastro Benedicite, s'ha egli da alzare il ponte, questa sera?

      – Che ponte mi vai tu pontando ora? – gridò stizzito il falconiere.

      – Sì, il ponte, il ponte! – disse di rimando quell'altro. – Messer lo Conte e tutta la sua gente sono per andare a mensa, e credo non aspettino più altri da fuori.

      – Questo sapevo; e poi?

      – E poi, mastro Benedicite, io non c'entro. Se a voi piace che il ponte rimanga calato, accomodatevi pure. Voi avete da messer lo Conte ogni autorità, per far questo ed altro…

      – Sì certo, e me ne vanto; – rispose lo strozziere, che parlava allora da comandante della guardia – e penso di non essere venuto meno alla fiducia di messere Ugo. Il ponte è alzato.

      – È calato, – s'impuntava a dir l'altro – qui siete in errore; è calato.

      – Amico, – esclamò mastro Benedicite, dopo aver bene squadrato in viso il famiglio, alla luce di una lanterna che aveva accesa durante quel po' di conversazione, – bibisti quam maxime, a quel che pare.

      – Che cosa dite? io non intendo il vostro latino.

      – Dico che tu t'impacci de' fatti tuoi, e non mi venga a far l'omo; dico infine che tu se' pazzo, o ubbriaco. —

      Quell'altro si strinse nelle spalle, facendo con le labbra l'atto di chi alla perfine non ci ha nè sal nè pepe da metter su. E mentre il vecchio, presa la lanterna, esciva dalla falconeria per avviarsi alla porta della rocca, si fece in tal guisa a proseguire il discorso:

      – Io non volevo far altro che darvi un cenno della cosa. Per me, poi, stia calato, o si alzi, non me ne importa un frullo. Ad altri, in cambio, può talentare che l'escita sia libera, e non c'è nissun male. Già, chi ha da venire a darci molestia quassù? Nemici molti, si farebbero scorgere troppo tempo prima. Pochi, avrebbero degna accoglienza. E se pure non si ha paura del diavolo… il quale del resto non ha bisogno…

      – Sta zitto là, manigoldo! – gridò Benedicite, e fu ad un pelo di mettergli la palma della mano sui denti. – Tu non sai quel che ti dica, e meno ancora di quello che hai detto poc'anzi del ponte calato.

      – Orbene, vedete di per voi; è alzato o calato? Erano allora per l'appunto alla porta, e i buffi dell'aria esterna s'ingolfavano rumorosamente sotto l'androne. Mastro Benedicite non rispose, che non avea tempo da schermire di lingua col famiglio, e con passo deliberato corse da un lato dell'androne a cercare un uscio socchiuso, donde usciva un po' di luce fumosa e un suon di voci avvinazzate.

      – Che


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