Il bacio della contessa Savina. Caccianiga Antonio
Il bacio della contessa Savina
I
Il romanzo della mia vita incomincia quando io avea diciott'anni, e passavo gran parte del giorno al balcone, in casa di mio zio canonico. Allora la contessa Savina di Brisnago aveva sedici anni, e ricamava, seduta presso al balcone dirimpetto del mio. Era una bella giovanetta, aveva un profilo dolcissimo, un nasino provocante, una bocca soave, capelli neri rilevati sulla fronte, occhi bruni, divini. Mi pareva un angelo sceso dal cielo, tanto i suoi movimenti erano leggiadri e maestosi. Io non mi saziava mai di contemplarla, ella di tratto in tratto alzava la testa dal lavoro, si passava una mano sulla fronte, si lisciava i capelli, poi con aria distratta guardava il cielo, le case di fronte e le tendine della finestra. Il suo sguardo percorrendo questa linea attraversava naturalmente il mio balcone, e quantunque passasse come un lampo, pure mi gettava lo scompiglio nell'animo. Non saprei spiegare l'arcana attrattiva, che come un filo invisibile mi legava a quella fanciulla, tenendomi immobile per delle ore.
Veronica, entrando nella mia stanza come una valanga, rompeva sovente quel fascino annunziandomi il pranzo. Allora io scendeva e andava a collocarmi a mensa dirimpetto dello zio, che mangiava con grande appetito, mentre io inghiottiva ogni cibo con ripugnanza. Egli mi interrogava sui miei studi, mi parlava di pedagogia, di metodica, d'aritmetica; io rispondeva sbadatamente, pensando a quella finestra. Finito il pranzo, mio zio si ritirava a fare il suo chilo, ed io ritornava alle mie estatiche contemplazioni. In casa Brisnago pranzavano molto più tardi di noi, e talvolta prima del pranzo andavano a fare un giro pel corso. Allora ella si alzava da sedere, dava un'occhiata fuori della finestra, guardava alla sfuggita la nostra casa, ed io sentiva il dardo fatale entrarmi nel cuore e lacerarlo. Essa scompariva, e qualche tempo dopo lo scalpito dei cavalli e il rumore della carrozza mi avvertivano della partenza.
Allora io prendeva il mio cappello, e me ne andava girovagando per le vie di Milano sulle traccie della mia stella. La trovavo quasi sempre sui bastioni, i nostri sguardi si scontravano rapidamente ed io rimaneva come sbalordito a contemplare quel cocchio che correva portando con sè qualche cosa di me stesso; tanto è vero che imbattendomi per via in taluno de' miei amici che si arrestava a parlarmi, io faceva la figura di un imbecille, e mi restava appena appena tanta intelligenza da accorgermene.
Mio zio canonico non s'avvedeva di nulla; rinchiuso nella sua sfera d'azione, egli compieva le sue evoluzioni quotidiane con esattezza inappuntabile. La messa e la colazione, le sacre funzioni ed il pranzo, il breviario e il passeggio, il chilo ed il sonno si succedevano per lui con tale regolarità, che i nostri vicini se ne servivano per regolare gli orologi, e dicevano: – il canonico Carletti va a dir messa: sono le otto; il canonico va a cantar vespro: sono le due. La nostra vita rassomigliava perfettamente ad un cronometro; Veronica era la seconda ruota, come io era lo scapamento che riceve l'impulso, e tutto si muoveva per addentellato del motore principale, ossia del padrone di casa.
Mio zio metteva la felicità nella precisione dei movimenti, e ciò appunto formava la mia desolazione, sentendo il bisogno di muovermi secondo i variabili impulsi della mia natura. Ma bisognava rassegnarsi a trascinare la catena che mi veniva imposta dal mio benefattore, perchè io non era che un povero orfano. Privo delle carezze dei genitori, in tenera età, mio zio ricoverandomi in casa sua mi salvava dalla miseria; io non aveva ereditato che una piccola medaglia di bronzo che mia madre teneva al collo per divozione, e che dopo la sua morte venne appesa al mio letto, come talismano dell'infanzia. La mia sommessione era dunque un dovere e in pari tempo una necessità, che per mezzo dell'educazione mi apparecchiava l'indipendenza per l'avvenire.
Ma io mi risarciva della schiavitù personale colla libertà dello spirito. Sdraiato sul canapè della mia cameretta accendeva uno sigaro e mi metteva in viaggio. La mia fantasia usciva dalla finestra sulle spire del fumo, e volava per l'ampio orizzonte con la rapidità del pensiero. Se potessi rammentarmi quelle peregrinazioni meravigliose, scriverei un bel volume. Mio zio mi destinava all'istruzione, io accettava il suo piano come un mezzo d'emanciparmi, ma mi pareva di sentire in me stesso una voce che mi chiamasse a più alti destini. Quel sentimento d'amore che mi agitava l'anima aveva acceso nella mia mente una scintilla che mi svelava un nuovo mondo; i miei pensieri si elevavano ad un'altezza sublime che, rivelata con l'arte, avrebbe destato la meraviglia universale. L'amore mi additava il cammino della gloria e della fortuna. Avevo incominciato una tragedia, il Lucchino Visconti, ove tentava rivelare gli arcani d'un'anima innamorata e mi pareva che la comparsa del mio lavoro avrebbe introdotto una riforma radicale del teatro italiano. E mi sembrava già di vedere il pubblico, esaltato dall'entusiasmo, portarmi a casa in trionfo.
All'indomani dovevano naturalmente piovermi addosso gl'inviti, le onorificenze e il denaro; ad ogni produzione l'oro invadeva il mio scrittoio. Una nuova poesia era comparsa alla luce col corteggio della ricchezza; il poeta tradizionale lacero, tapino e ridicolo cedeva il passo al principe delle lettere, del quale tutti ambivano i favori. Egli dava vita alle sue stupende creazioni in una splendida dimora, fra i bronzi, i marmi, le pitture, e il lusso d'un palazzo incantato.
Con tali presagi nell'animo mi affacciavo alla finestra; gli occhi della mia musa si alzavano, e un fluido celeste mi avvolgeva, come in un nimbo di gloria. Niente mi pareva impossibile nella vita: io sentiva una fiamma che mi rendea onnipotente.
Un giorno fra gli altri me ne stavo assorto in una di queste estasi eteree, quando la Veronica entrò nella stanza.
– Daniele, – essa mi disse, – avete pensato che s'avvicina l'inverno, che il freddo incalza, che avete il pastrano sdruscito, gli stivali sgualciti, i calzoni rattoppati?
– Veronica, – io risposi gravemente, battendomi sul petto, – io tengo qua dentro dei tesori che possono procurarmi tutti gli agi della vita…
Essa mi guardava con tanto d'occhi spalancati credendo che alludessi al mio portafogli, poi mi domandò ansiosamente:
– Avete dunque molto denaro in saccoccia?
– Io?.. non ho che cinquanta centesimi…
– Ma dunque di che tesori mi parlate?
– Vi parlo dei sentimenti del cuore che ispirano la mia mente… e la rendono capace di produrre quelle opere che attirano l'ammirazione degli uomini, e arricchiscono gli autori. Sono sicuro dell'avvenire!
– Tanto meglio… ma l'avvenire è in mano di Dio… invece i vostri vestiti li tengo nelle mie mani ogni giorno, ne conosco tutti i sdruciti e le mende, e vedo la necessità che il sartore ve ne faccia di nuovi. Monsignore vi vuol bene, ma i canonici non possono conoscere tutti i bisogni della gioventù. Tocca a voi domandare quanto vi manca… Su via, volete che gliene parli io?..
– Cara Veronica… come siete buona!.. avete sostituita mia madre sulla terra… che il cielo vi benedica mille volte.
E pensando alla mia miseria e all'ottimo cuore di quella donna, io piangeva come un fanciullo. Allora essa mi calmava chiamandomi matto, smemorato, fantastico, epiteti coi quali soleva generalmente esprimermi la sua affezione. Poi correva ad enumerare i miei bisogni allo zio, ed il buon vecchio mi apriva la borsa. Io mi limitava al necessario ed egli, dopo pagate le spese, si lodava della mia discrezione e modestia.
Così, io passava la vita tranquilla alla superficie, burrascosa nel fondo. Quell'inverno mi fuggì rapidamente; meno qualche ora di scuola e di passeggio, io viveva in casa, ritirato nella mia cameretta, ma col cervello sempre in viaggio. Una finestra e dei libri mi davano maggiori occupazioni, gioie, ansie, affanni, peripezie che non ne provassero i viaggiatori più arditi che investigavano le sorgenti del Nilo o l'interno dell'Africa. Difatti la prospettiva di quella finestra ove stava seduta la contessa Savina corrispondeva per me ai più stupendi panorami del globo, e la mia fantasia percorreva le ridenti regioni dei sogni, più vaghi di qualunque altro paese. E se i viaggiatori avevano a temere i selvaggi e le fiere, io pure aveva da paventare i potenti rivali che circondavano il mio idolo. Essa frequentava le conversazioni, i balli, i teatri, ed io non poteva seguirla che col pensiero; e l'accesa immaginazione la vedeva corteggiata da giovinotti suoi pari nei salotti eleganti, nel palchetto del teatro, o trasportata nelle loro braccia nei vortici delle danze, fra i doppieri ardenti, il profumo dei fiori, e l'ebbrezza d'una musica affascinante.
Quando alla sera io udiva dalla mia cameretta il rumore della carrozza che la conduceva ai piaceri del mondo, mi sentiva il raccapriccio come un uomo assalito dalla febbre. Quante notti