Pietro Mascagni. Bastianelli Giannotto

Pietro Mascagni - Bastianelli Giannotto


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      Pietro Mascagni

      L'OPERA IN ITALIA

      I.

      L'opera in Italia – Suo carattere popolaresco

      Ogni paese ha la sua lingua musicale, le cui peculiarità di concezione e di costruzione si formarono a poco a poco e furon tramandate più o meno fedelmente dai musicisti. Così, più o meno interrottamente ebbe ed ha tuttora una lingua musicale originale la Francia, così l'ebbe l'Italia e l'ha tuttora sebbene un poco modificata da veri e propri barbarismi, di cui la sorgente è o la musica francese o, se non sempre direttamente, la musica tedesca e, meglio, la musica wagneriana. E per linguaggio musicale moderno dell'Italia intendo di necessità il linguaggio del melodramma, poichè da quando comparvero i grandi compositori di musica strumentale in Germania, questo genere di musica in Italia divenne fatica di retori plagiari e pesanti. Abbiamo infatti noi dei quartettisti da mettere a paro con Haydn Mozart Beethoven? Può un sol quartetto del nostro accademico Bazzini sostenere il confronto d'un qualunque quartetto dei classici tedeschi? E di tutti gli scrittori di musica per pianoforte e di musica sinfonica non teatrale, chi è riuscito ancora a dire agli Italiani una parola sua, a farci scordare l'instante tirannia di Beethoven di Schumann di Liszt di Wagner? Non è, anzi, senza una ragione profonda il contegno indifferentissimo del pubblico italiano verso i così detti scrittori di musica seria. Infatti il buon pubblico innocente e ignorante sente istintivamente che sotto quelle dotte polifonie ben imitate da chi ne seppe più ed ebbe cuore più nuovo e più sensibile, c'è un silenzio inutile, c'è il triste vuoto di colui che non ha forza fantastica tale da plasmare spontaneamente una nuova forma sinfonica veramente latina.

      Mancando dunque i grandi lirici personali, le grandi individualità musicali che si esprimano ciascuna con un glorioso linguaggio che sembri assorbire e contenere tutto il vocabolario musicale d'un'epoca o di un popolo, in Italia risponde moltissimo al gusto popolare l'opera. E non l'opera quale Wagner aveva concepita: altissima tragedia musicale, profonda di poesia e di pensiero; ma il semplice melodramma popolaresco, in cui il libretto, generalmente, invece di essere un'intuizione poetica del mondo quale la Dannazione di Faust, o il Tristano e Isotta, non ha altro ufficio che prestare al compositore dei personaggi senza articolazioni, forniti di ottima gola per cantare. Sicchè, sieno pure tali personaggi vivi, indovinati, oppure astrazioni irreali, cadaveri ambulanti per sola virtù di retorica, ciò non importa. L'essenziale è di situarli e d'aggrupparli in modo che essi possano cantare molte melodie. Chè di queste sono gravidi i compositori italiani, e di queste ghiotti gli ascoltatori italiani.

      Tuttavia anche la melodia italiana ha subito delle trasformazioni sebbene esteriori. Non più l'accurata lasciva cantilena della scuola napoletana; non più i gai gargarizzi dell'opera buffa, fra i quali talora zampillava qualche larga monodia d'una dolcezza impreveduta. Verdi l'agitatore di popolo, come Garibaldi fu creatore di eroi, sembrò avere scosso l'inerzia molle e l'allegra indifferenza in cui amava esser cullata e illusa l'animula italiana. O meglio, era il popolo italiano che, risuscitato dai soffi primaverili del risorgimento, esigeva un'arte melodica nuova: la melodia della passione sfrenata e cieca, della passione che ricordasse la ribellione, che sapesse un po' di polvere e di sangue. Verdi fu la voce del nuovo bisogno. I libretti si popolarono di situazioni drammatiche irte di spasimo e di ferocia. E alle tenui cantilene, agli affetti leziosi e di poco palpito, subentrarono modi di canto dalla tessitura più audace, dalla struttura ritmica più marcata e violenta, e forti effetti corali e strumentali, e finali «allegro furioso» atti ad ubbriacare i loggioni avidi di commozioni rapide e brutali.

      Se non che anche l'arte Verdiana rimase nella sostanza simile a quella dei predecessori; arte, cioè, sempre primitiva nel contenuto sebbene spesso perfetta nella forma, profondamente sensuale, di tinte accecanti, di un sentimentalismo un po' barocco, ma spesso franco e sincero; arte che, prossima forse ora al suo tramonto, non è destinata del tutto all'oblio, ma è meritevole di esser frammentata da una critica spassionata e rigorosa in una specie di florilegio contenente le più belle ispirazioni dei nostri ottocentisti, delle quali dobbiamo, e a ragione, esser gelosi, se non altro per non interrompere le più pure tradizioni del nostro linguaggio musicale1.

      Ora, Pietro Mascagni appunto è un continuatore degli operisti popolari. Non ostante la preparazione più accurata, il possesso d'un'orchestra più ricca, più colorita e più flessibile, egli rimane un melodista fresco, facile, talvolta futile, ma quasi sempre trascinante per la esuberante ed ingenua passionalità. Egli, pur avendo una personalità diversissima da quella di Rossini e di Verdi e, come Rossini e Verdi, impersonando la nuova mediocrità mentale della terza Italia, non è che un continuatore in linea retta di Verdi e di Rossini; prezioso, ammirevole per questa sua bella italianità (che a dir vero non possiede molto Puccini forse meno ingenuo, ma d'una sentimentalità troppo infranciosata, sul tipo del buon Massenet); colpevole, come quelli, di essere così al disotto della vasta cultura e della profonda coscienza dello spirito umano che hanno avuto i grandi d'ogni tempo.

      II.

      Retorica nell'opera italiana

      Poichè se ogni arte è condizionata nella libertà del suo contenuto, vi sono però artisti che nascono e si sviluppano quasi al di sopra della mentalità comune, violentando, se troppo angusti, i limiti della storia di cui sono figli, sebbene serbando profondamente conficcate le radici in quella storia stessa. L'operista italiano, invece, ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari, che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile. Certo nell'arte non vi è progresso, ma vi è progresso nelle condizioni del suo contenuto. Ponendo il caso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra il popolo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, esperienze diverse portarono a conoscere una vita più alta, più ignuda di pregiudizi e di debolezze, non ci meraviglierà che quest'uomo sorrida con commiserazione della sua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea del credere che l'anima popolare sia la più genuina che vi possa essere. La sua forza di sentire potrà essere, ed è spesso, più violenta della nostra, ma l'esattezza delle impressioni, la elevatezza del gusto, la chiarezza del pensiero, cresce in ragione che ci innalziamo e ci allontaniamo dallo stato confuso e bolso della vita popolare2.

      Ognuno di noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del popolo, può avere sperimentato, conoscendo qualche parrucchiere o qualche tappezziere o penetrando nell'intimità d'una famiglia del popolo, tutto il misto di grottescamente falso e di ingenuamente vero, che contengono i sentimenti del volgo e le loro estrinsecazioni. Ora sarà il baleno d'un concetto larghissimo, che l'ingenuo buon senso sfiora riempiendoci di stupore; ora sarà la vana ripetizione male a proposito d'un trito sofisma che ci urta e ci disgusta; ora sarà una intuizione splendida, quattro o cinque parole, un'osservazione psicologica, un'intonazione, un arabesco della voce d'uno che canta per i campi, che ci infondono un vero e proprio brivido estetico; ora sarà la deformazione di non so quale orribile verso d'uno dei tanti poetucoli italiani retorici e mentitori, per lo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci farà voltare nauseati da un'altra parte.

      L'arte popolare o di chi anche a traverso studi relativamente superiori, si può pur sempre chiamar popolo, presenta queste bellezze e questo grottesco, questa curiosa mistura di pura semplicità e nitidezza nella visione ed espressione, e di tronfiezza ridicola. Così assistendo, per es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi una continua oscillazione tra l'aere sereno della bellezza e il tanfo opprimente della retorica. Ma intendiamoci bene sul carattere specialissimo di questa retorica. Essa è come una retorica iniziale, una retorica delle condizioni in cui s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambiente storico in cui un artista si sviluppa, commette un errore comune, è difficile che quell'artista, se non provvisto di un punto d'appoggio per giudicare, di richiami critici per verificare, possa eroicamente difendere il proprio contenuto da quella specie di morbo universale. Onde avviene che si formano certi schemi di arte, in cui la visione degli artisti vissuti nello stesso ambiente storico sembra avere un punctum caecum sempre allo stesso posto. Per esempio, v'è nell'opera italiana un luogo più comune delle così dette arie della pazzia, scena della maledizione, scena del riconoscimento, scena d'amore, scena della morte? Però, superata


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<p>1</p>

Del resto certe selezioni si fanno talora senza aiuto della critica, ma quasi per una spontanea critica insita negli esecutori. Infatti dei molti melodrammi che in Italia sono stati composti da che la camerata del Conte de' Bardi ideò il genere dell'opera, che cosa è rimasto, se non qualche aria, staccata, senza danno reciproco, dall'opera a cui apparteneva, per esser cantata nei concerti?

<p>2</p>

Avverto una volta per tutte che il popolo di cui parlo qui non è il popolo delle campagne e delle montagne, spesso puro e a suo modo profondo; ma parlo del popolo delle città e dei grossi borghi, al quale si attagliano benissimo le mie osservazioni.