Pietro Mascagni. Bastianelli Giannotto

Pietro Mascagni - Bastianelli Giannotto


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descrittività di questo preludio mi si potrebbe obbiettare che il significato che io dò ad esso può anche dipendere da una retroproiezione del significato del dramma su di esso. In altre parole: se questo preludio fosse eseguito separatamente, esso non potrebbe parlarci di Santuzza e del suo dolore. Ma la questione è che questo preludio non dev'essere eseguito separatamente, per la semplice ragione che esso è stato concepito insiem col dramma. Nè, parimente, è vero che tutte le parti d'un'opera debbano, se staccate da essa, dirci da loro sole a qual causa, per dir così, sono votate. Se la Cappella Sistina fosse per ipotesi scancellata dal tempo di sul muro dov'è dipinta e dalla memoria umana, colui che ne venisse a scoprire un frammento, ad es: una delle Sibille, si troverebbe, credo, ben'imbrogliato a ricostruire il tutto, risalendo ad esso da quella parte frammentaria. Lo stesso si dica di uno dei frammenti scampati al naufragio del teatro greco. Una frase, un motivo, una figura prendono il loro significato dal testo al quale sono concreate. È il tutto che dà il valore delle parti, o, meglio, è l'intuizione, per dir così, centrale, che s'è espanta armoniosamente nelle più estreme ramificazioni del tutto. Le parole, le frasi, i periodi; le note, gli accordi, i motivi, gli svolgimenti, etc. etc., non sono che forme del linguaggio, il quale è composto di simboli vuoti e, per dir così, non solo empibili di sempre mutevole contenuto, ma trasportabili in quella di tutte le posizioni rispetto al tutto, che possa contribuire maggiormente a raggiungere l'intuizione madre, a esprimerne la vita, almeno approssimativamente. L'essere scettici riguardo alla descrittività della musica, o meglio al suo valore determinativo, è essere scettici del potere rappresentativo del linguaggio umano; e se tale scetticismo spesso non ha luogo di esercitarsi sul linguaggio parlato, ciò dipende dalla lunga abitudine, che ha soffocato lo stupore del miracolo.

      Il sipario si alza davanti alla piazzetta d'un paese in festa. È mattina. Le campane suonano e dal loro ritmo vien generato, con un'intuizione geniale, il motivo gaio e esuberante di trilli di colore e di squilli di luce, che descrive la pasqua. Son frasi gaie, lanciate con un brio rossiniano di danza, alle quali si unisce a poco a poco il doppio coro, quello femminile cantante una fresca e delicata melodia primaverile, quello maschile, rude, un po' sgarbato nella sua allegria contadinesca. La scena è indovinatissima. Potrà forse sembrare triviale a certi critici di palato ipersensibile, ma chi conosce bene le pasque gioconde delle nostre città italiane col loro bel sole d'aprile, con quel brulichio d'abiti femminili dai colori accesi che formano colle luci e con le ombre accordi policromi sempre cangianti; chi ha provato quel senso tutto caratteristico di allegria spensierata e di facile felicità che effondono lo scampanio incessante e il clamore della folla, diverso, non so perchè, da quello delle altre domeniche, riconoscerà che Pietro Mascagni ha mirabilmente rappresentato in questa scena introduttiva il mattino della pasqua popolare italiana.

      E il dramma comincia.

      Un motivo tortuoso e cupo, il motivo della gelosia di Santa, apre il recitativo di questa con mamma Lucia. Fermiamoci un istante su questo tipo di recitativo. Esso non è il vecchio recitativo monotono dell'opera buffa, o il recitativo eroico e starei per dire marmoreo delle opere wagneriane della prima e seconda maniera. Neppur si riattacca al melanconico e sentimentale recitativo del 500-600. Deriva, se mai, dal recitativo bizettiano (da quello per es., dell'ultima scena della Carmen, chè i veri recitativi secchi di quest'opera non furono scritti dal Bizet, come ognun sa, ma dal suo amico Guiraud), recitativo drammatico, duttile, pieghevole a esprimere con naturalezza i più diversi sentimenti. Ma, in realtà, è una specie di recitativo nuovo, anzi più un canto libero ogni tanto solcato da esclamazioni liriche dell'orchestra, che un vero e proprio recitativo. In opere posteriori il Mascagni ha pur troppo tentato di abbandonare questo suo bel tipo di recitativo per riprendere anch'egli il recitativo svenevole e civettuolo della scuola massenettiana. Ma non avendo il Mascagni le pessime doti di leggerezza melliflua che ci vogliono per parlar musicalmente con tale leziosaggine melensa, ne è venuto fuori un linguaggio ibrido, che non contenta nessuno con la sua goffaggine provinciale, che vuol sembrare disinvoltura da viveur.

      La canzone di Alfio, che segue l'incontro delle due donne, è uno dei pezzi più scadenti dell'opera. In esso appare, la prima volta in Mascagni, il vizio dell'enfatica eloquenza inutile, vizio inoculato nella musica moderna dal dittatore a vita di essa musica: Riccardo Wagner. Lo spunto della canzone, un triviale motivuccio da operetta, è scelto arbitrariamente dall'autore a reggere un grandioso edificio corale e strumentale di nessun valore musicale, salvo che musica non diventi sinonimo di fragore. L'origine di questo vizio va ricercata, come ho detto, nello smodato fervore con cui finora è stato studiato il sistema d'orchestrazione wagneriano. Il Wagner, scopritore di meravigliosi e impreveduti impasti strumentali, lasciò pur troppo una specie di ricetta, usando la quale i musicisti sono pressochè sicuri di ottenere un frenetico applauso. Comunque questo pezzo, che sembra descriva il fragore di rotolanti carri guerreschi e non l'umile treppichio dei poveri barrocci siciliani, ha pur nel disegno errato qualcosa di fresco e di giovanile che fa pensare a certi selvaggi e un po' triviali ritmi tschaikowskyani. Quasi a fare il pendant a questo coro segue l'inno popolare della resurrezione. Anche questo pezzo è condotto con un po' di tronfiezza ed esagerazione. Ma la spontaneità della melodia, l'impeto delle modulazioni, alcuni effetti irresistibili di sonorità, vibranti quasi d'un empito di gioventù e di passione, finiscono per far perdonare il fragore, pur questa volta sproporzionato a un'azione che esigerebbe maggior semplicità e forse un tono tra l'agreste e il pastorale; insomma un canto più umile e meno meyerbeeriano nella condotta.

      Ma ecco due scene in cui il Mascagni può abbandonarsi tutto al suo frenetico lirismo erotico. Il racconto che Santuzza fa del tradimento di Turiddu, e il duetto tra questi e Santuzza, interrotto per un istante da una breve entrata di Lola, un po' curiosa a dire il vero. Giacchè donne che vadano alla messa per una piazza pubblica cantando a squarciagola stornelli d'amore, sono, anche sul teatro melodrammatico, e con buona pace dei librettisti, inverosimili. Infatti i librettisti italiani sembrano un po' troppo convinti che l'arte, sia lirica, sia drammatica, è immagine, sì del reale, ma del reale trasformazione fantastica. In fondo in fondo, sotto la libertà dell'arte, si trova – la schiavitù della scena. E questo mi si conceda che è alquanto ridicolo trattandosi specialmente di un dramma… veristico. O la bella e schietta verisimiglianza della novella del Verga! Ad ogni modo queste due scene sono tra le parti più belle dell'opera; onde occupiamoci sopratutto del carattere personalissimo di questa musica. Ho già detto altrove che il Mascagni sente più di ogni altro sentimento l'amor sensuale e un po' brutale del popolo; questi due pezzi ne sono una conferma lampante. Il primo di essi, la romanza di Santuzza, narra il dolore della giovinetta tradita, il ribrezzo della sua carne martoriata dalle immagini del desiderio e della gelosia, sempre rinascenti come un incubo infaticabile. La musica si colora mirabilmente delle immagini poetiche espresse dalle parole, anzi sembra essere di queste immagini narrative-verbali quella confusa frangia di nuove immagini e sentimenti che suole circondare come un alone sfumato e inafferrabile l'immagine centrale di una poesia. Già l'introduzione orchestrale simile alle iniziali miniate, con cui, nei libri antichi, si preludiava pittoricamente alla narrazione di poi scritta, ci fa entrare nella pienezza della situazione. Il pudore e lo spasimo carnale, che impediscono alla giovinetta di parlare; la rassegnazione al destino, sotto la quale però cova l'odio mortale alla donna che ha sedotto Turiddu, per invidia a lei, Santuzza, non per vero amore a Turiddu; tutte queste fluttuazioni di passioni tra di loro intrecciate e contrastanti, e di cui la potenza sta per prorompere nella povera fanciulla con un'intensità tutta propria dell'anime popolari più istintive che riflessive; sono bene espresse in quei due versi di melodia6 dolorosa, coronati da uno scoppio passionale e conclusi dall'abbattimento d'una cadenza rallentante. La melodia del racconto quindi segue e sottolinea con perfetta evidenza sentimentale, non visiva, come fa, per es., Wagner, gli episodi dell'agitata narrazione della popolana. Di questi episodi belli in particolar modo sono e quello in cui vien narrato il nuovo ravvicinamento di Turiddu e Lola, e quello in cui si confessa l'atroce verità con tutta la confusione della vergogna e la rivolta dell'amore tradito:

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<p>6</p>

Sono obbligato, in mancanza d'un linguaggio più preciso, a chiedere in prestito i vocaboli alla metrica della poesia, del resto non certo estranea alla metrica della musica ancora anonima.