La plebe, parte III. Bersezio Vittorio
non c'è più nulla da dire.
E con quel suo simpatico e benigno sorriso, spinse gentilmente da una parte la portinaia, e per l'apertura che rimase, s'affrettarono egli e Maurilio a guizzare.
Un quarto d'ora non era trascorso, ed ecco presentarsi alla vista delle comari, sempre ancora intente a chiaccherare, l'allegra figura di Giovanni Selva. E' se ne veniva col suo abituale piglio di buon umore, canterellando un'aria di teatro, un sigaro acceso in bocca, come uomo che se ne torna da una passeggiatina dopo un buon asciolvere. Come già intorno a Maurilio, la portinaia colle sue compagne assaltarono al passaggio il secondo venuto.
Selva, rimasto solo nel carcere, e non osando mai più sperare una sì pronta liberazione, non era senza inquietudine di ciò che in quel momento accadesse al compagno da cui lo avevano separato, di ciò che avesse poi da toccare a lui medesimo. Per fortuna la sua ansiosa aspettazione non fu di lunga durata. Come già erano venuti a prender Maurilio, così accadde di lui, e nella medesima guisa fu egli condotto innanzi alla faccia fieramente burbera del signor Commissario.
Il modo con cui questi accolse il giovane era tale da far agghiacciare il sangue nelle vene a qualunque che non avesse la calma, la risoluzione e la coraggiosa noncuranza di Giovanni. A costui l'intimata da farsi doveva essere ben più aspra e terribile e romoreggiante di severissime minaccie, perchè egli aveva osato ammaccare de' suoi pugni ribelli le brutte faccie dei poliziotti rappresentanti della legittima autorità. Era pur vero che que' malcreati di scherani colla prepotenza codarda del numero e dell'impunità assicurata se n'erano vendicati coi maltrattamenti che sappiamo; ma tuttavia il solenne principio che il suddito deve lasciarsi battere e dir grazie, porgere le spalle al bastone e baciar la mano che lo regge, principio su cui, secondo il signor Tofi, deve fondarsi ogni ben regolata società, codesto principio, dico, era stato gravemente offeso da que' tali scopozzoni somministrati da Giovanni, e bisognava guarentire da ogni ulteriore contusione la santità del principio e il naso degli sgherri. Un tiranno da dramma di arena in giorno di festa, che ha dietro la quinta il carnefice già bello e pronto coi calzoni rossi e la barbaccia finta al mento per comparire al primo olà muggito in voce di basso profondo, non accoglie più ferocemente il primo amoroso cui sta per mandare al patibolo, di quello che fece il Commissario verso il nostro Giovanni. La voce reboante del signor Tofi, dall'alto del suo cravattino duro tuonò come un temporale dalla montagna. Il colpevole che gli stava dinanzi era degno della galera e peggio; a tanto misfatto l'orrore dei buoni si doveva e la mano vindice del carnefice; del 33 avevano ricevuto un'oncia di piombo nella testa pervicace dei birboni di ribelli che appetto a Selva erano agnellini di candore governativo e d'ubbidienza e rispetto all'augusto legittimo Sovrano5. Ma del feroce discorso quanto più inaspettata, tanto gradita fu la conclusione all'orecchio del giovane: ed era che per intanto gli si dava il largo. Giovanni aveva ascoltato tranquillo le invettive e le minaccie del Commissario, come un modesto ascolta i complimenti che gli si fanno, senza chinar punto gli occhi innanzi alle fiere pupille che lucicchiavano sotto la gran tesa del cappellone che il signor Tofi teneva insolentemente piantato in testa; all'annunzio finale della sua libertà restituitagli, il giovane ebbe la forza di continuare nella medesima apparente impassibilità, ma il cuore gli si mise a saltellare allegramente nel petto, e confessò egli stesso di poi che il giuoco dei polmoni nel rifiatare gli divenne di subito più libero e più facile.
Ma le prove di Giovanni non erano ancora finite. Il signor Tofi ebbe la felicissima idea di volergli far giurare, prima di dargli il volo, ch'egli d'or innanzi sarebbe un esemplare di suddito veneratore del trono e dell'altare, rispettoso d'ogni agente del Governo dal primo ministro al cane dell'usciere, dal cappello gallonato del generale alla cassa dell'ultimo tamburo dell'esercito, dalla toga rossa del senatore alle manette dello sgherro.
Giovanni si dimenticò d'essere un avvocato per ricordarsi soltanto che era un uomo schietto a cui ripugnava un falso giuramento anche imposto dalla prepotenza. Non cercò sotterfugi, non ricorse a restrizioni mentali, non addusse sofismi; guardò ben bene in faccia il Commissario e disse francamente ch'egli apparteneva alla setta dei Quaccheri i quali di giuramenti non ne facevano mai nè anco per salvarsi dalla morte.
Il signor Tofi aveva il più stretto dovere di salire in una collera ufficiale, e non ci mancò. Pensò un momento seco stesso se non aveva da rimandare nel carcere questo sedicente quacchero a maturare una più conveniente risoluzione; ma poi non ardì farlo ricordando le parole del conte Barranchi e l'ordine di liberazione venuto direttamente dal Re. Si contentò di fare scrosciar nuove minaccie sul capo del pervicace: che già l'autorità aveva l'occhio aperto su lui e sui suoi pari, e guardasse bene che al primo piccolo motivo di sospetto avesse dato, l'artiglio della polizia l'avrebbe preso di nuovo e per non lasciarlo più così di piano.
Selva salutò rispettosamente, uscendo, i cannoni che allora stavano appostati sotto l'atrio del Palazzo Madama, e confessò che quando si trovò fuori del portone al fioccar della neve che veniva giù fitta fitta, gli parve che quella giornata fosse più bella che una giornata di sole, e fu con un gusto tutto nuovo che accese il suo sigaro da un soldo in presenza dell'imponente facciata del castello in cui aveva sede l'orco della Polizia.
– Cara sora Ghita: disse Giovanni Selva alla portinaia rinfiancata dalla frotta fedele delle sue comari; sì, eccomi restituito alla libertà, agli amici, alla poesia ed a Lei. Come mi hanno arrestato? Colle manaccie di certi arcieri, più sporche della coscienza di un ladro. Perchè? Perchè quei furbi della Polizia, che leggono i pensieri nel cervello di una mosca, si sono immaginato che io ed i miei amici volessimo portar via le statue che stanno sul Palazzo Madama. Visto che le non ci entravano in tasca, hanno capito che eravamo innocenti e ci hanno mandati con Dio, senza darci manco da colazione. Tenga a mente questa esposizione di fatto, e la tramandi pure ai posteri, se la può, chè la storia ne trasmette loro difficilmente di più esatte e fedeli.
Ciò detto, abbracciando scherzosamente la vecchia portinaia, la tirò da parte per aprirsi il varco, e distribuito a manca ed a sinistra alcuni di quei suoi schietti ed allegri sorrisi, corse lesto verso le scale, cui salì a due scalini per volta, seguitando a canterellare allegramente la sua arietta.
Le cose dette da Selva non appagarono così compiutamente la curiosità delle donne che non avessero più materia di chiacchere e d'induzioni da mantenere vivo il colloquio per un'altra buona mezz'ora.
Ed ecco, a capo di questo tempo, presentarsi agli occhi della portinaia una persona la cui presenza era fatta apposta per interessare vivamente la vecchia ciarlona curiosa: il falso operaio della sera innanzi, l'interrogatore astuto ed insinuante, quello sconosciuto cui monna Ghita aveva trovato rassomigliare al fumista di via Santa Teresa, in una parola l'agente di Polizia, Barnaba.
Costui abbiamo visto, uscito dal Palazzo Madama, dopo il colloquio col Commissario, indirizzare i suoi passi verso l'osteria di mastro Pelone. Ciò che colà vi facesse e dicesse questo personaggio è giovevole che sappiamo per comprendere alcuni degli avvenimenti che avremo da narrare.
CAPITOLO VI
Quando Barnaba entrò nell'osteria non vi erano punto avventori; Andrea, Marcaccio e Graffigna n'erano usciti già da un'ora; Pelone stava accoccolato a suo modo dietro il banco in fondo alla bottega; Maddalena, ritta innanzi ad uno specchietto sporco che era appiccato ad un luogo della parete presso la botola da cui si scendeva nelle stanze sotterranee, stava guardandosi con compiacenza ed aggiustandosi un nastro nelle chiome; Meo, mezzo inginocchiato, mezzo seduto presso il braciere, di cui sommuoveva di quando in quando le braci con una paletta di ferro, Meo colla sua aria d'imbecille stava mirando la Maddalena come un gatto mira una polpetta che gli suscita una maledetta voglia, ma cui la paura della cuoca presente gl'impedisce di ghermire.
Il bravo mastro Pelone, le ginocchia levate fino a mezzo il curvo petto, le mani sulle ginocchia e il mento sulle mani, gli occhi chiusi e il naso madornale volto a terra, immobile e senza pur mandare uno sbruffo di quella sua tosse cavernosa, avreste detto che dormiva. Il fior di galantuomo invece stava pensando ai casi suoi.
Penetriamo sotto quel cranio color d'avorio ingiallito, coperto da quel berretto sporco, e vediamo che razza di pensieri sobbollano nelle ripiegature di quel cervello.
– La mia condizione non è delle più facili. Sono fra l'incudine e il martello, tenendo per questo e per quello, e corro rischio d'essere
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Oggi codeste maniere dei graziosi Commissarii di polizia d'un tempo sembreranno favole ed esagerazioni; ma io faccio appello alla memoria di chi ebbe il disavantaggio d'esser giovane prima del 1848, e ognuno di essi son persuaso dirà che io sto ancora al di qua del vero.