Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio
può esser vero; percioché a quei tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente si comprende per Eusebio in libro Temporum; e, che istoria questa si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo, non pare a’ santi in alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno l’altre, per alcuna forza d’incantamento si possa trarre d’inferno e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa veritá s’opponesse molte essercene state giá rivocate per forza d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel profeta, il quale quella pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono, compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro, diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati d’alcuni morti, e che in essi per forza d’incantamenti sieno rivocate l’anime. E di questa materia, cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le spezie de’ vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano scioccamente e in loro perdizione.]
«Quell’è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ’l piú oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel, che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’ cieli, e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo empireo, il quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.
«Ben so il cammin; però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare, per questa istoria da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva caduto; e, oltre a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio aspettava, non paia grave all’autore, e per quello accresca la sua paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:
«Questa palude», di Stige, «che ’l gran puzzo spira», cioè esala: e in questo dimostra la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono per l’acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto, nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno», onde si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere, quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello ’nferno, la quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule menare intorno. «U’ non potemo entrare omai senz’ira», – di coloro li quali contrariare n’hanno voluta l’entrata.
«E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello che infino a qui ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale è: «Peroché l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto», cioè avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo; «Ver’ l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite, «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata; «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».
«Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell’acqua, e però sono chiamati «idre» percioché l’acqua in greco è chiamata «ydros»; e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce, venendo sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l’autore pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s’intenda qualunque velenosissimo serpente.
«Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono «ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché «ceras» in greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il capo de’ capelli loro.
«E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno pianto», cioè d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si piagnerá; – «Guarda, – mi disse, – le feroci Erine», cioè le feroci tre furie.
E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone», la terza furia,«è nel mezzo» – delle due nominate di sopra; «e tacque a tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.
«Con l’unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto; Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo, «al poeta per sospetto».
E quello, che esse gridavano, era: – «Venga Medusa», quella femmina la quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí ’l farem di smalto», – cioè di pietra. È lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che altrove s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule, o verso lui; – «Mal non vengiammo in Teseo l’assalto», – il qual ne fe’, quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l’avessono, non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l’autore, il quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.
Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del quale si dolgono non aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena, ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina, secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da Ercule preso per la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato, ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.
– «Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato il romor fatto dalle