Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3. Edward Gibbon

Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3 - Edward Gibbon


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con le altre nazioni, potevan meritare il loro disprezzo. Le leggi di Mosè potevano esser per la massima parte frivole o assurde: non di meno essendo queste per più secoli state ricevute da una numerosa società, i lor seguaci venivan giustificati dall'esempio dell'uman genere; ed universalmente si conveniva, che essi avevan diritto di praticare ciò che sarebbe in loro stato un delitto di trascurare. Ma questo principio, che proteggeva la sinagoga Giudaica, non dava sicurezza o favore alcuno alla primitiva Chiesa. I Cristiani abbracciando la fede dell'Evangelio, supponevansi rei di una non naturale ed imperdonabile colpa. Scioglievano essi i sacri vincoli dell'usanza e dell'educazione; violavano le religiose instituzioni del lor paese, e presuntuosamente disprezzavano ciò che i padri loro creduto avevano come vero, o rispettato come sacro. Nè tal apostasia (se ci è permesso di usare questa espressione) era di una specie parziale o locale, poichè il devoto disertore, che si ritirava da' tempj dell'Egitto o della Siria, avrebbe ugualmente sdegnato di cercare un asilo in quelli di Atene o di Cartagine. Ogni Cristiano con disprezzo rigettava le superstizioni della sua famiglia, della sua città e della sua provincia. Tutto il corpo de' Cristiani di comune accordo ricusava di aver alcun commercio con gli Dei di Roma, dell'Impero e dell'uman genere. Invano l'oppresso credente reclamava i diritti non alienabili della coscienza e del giudizio privato. Quantunque la sua situazione potesse risvegliar la pietà, i suoi argomenti non potevano mai convincere l'intelletto nè della filosofica nè della credula parte del Mondo Pagano. Argomento era di stupore per essi che uno dovesse avere scrupolo di adattarsi alla maniera di culto già stabilita, non meno che sarebbe stato se uno concepito avesse subitaneo abborrimento ai costumi, al modo di vestire, od al linguaggio del proprio paese8.

      Alla sorpresa de' Pagani successe ben presto lo sdegno; e gli uomini più pii furono esposti all'ingiusta, ma pericolosa imputazione d'empietà. La malizia ed il pregiudizio si univano a rappresentare i Cristiani come una società di atei, che avendo audacissimamente attaccato le religiose costituzioni dell'Impero, meritato avevano i più severi castighi de' magistrati civili. Nella confessione, che facevano di loro fede, gloriavansi di essersi liberati da qualunque sorta di superstizione ricevuta in qualsivoglia parte del globo dal vario genio del Politeismo; non era però ugualmente chiaro qual divinità, o quale specie di culto sostituito avessero agli Dei ed a' tempj dell'antichità. La pura e sublime idea, ch'essi avevano dell'Ente supremo, sfuggiva dal grossolano concepimento del volgo Pagano, che non sapeva immaginare un Dio spirituale e solitario, il quale non si rappresentava sotto alcuna figura corporea o segno visibile, nè si adorava con la solita pompa di libazioni e di feste, di altari e di sacrifizi9. I Sapienti della Grecia e di Roma, che innalzato avevano le loro menti alla contemplazione dell'esistenza e degli attributi della prima Causa, per ragione o per vanità eran portati a riservare a se stessi o a' loro scelti discepoli il privilegio di questa filosofica devozione10. Essi erano ben lontani dall'ammettere i pregiudizi dell'uman genere, come il contrassegno della verità, ma gli consideravano come provenienti dall'original disposizione della natura umana: e supponevano che qualunque popolar forma di fede e di culto, in cui si fosse preteso di non far uso dell'aiuto de' sensi, a misura che allontanata si fosse dalla superstizione, sarebbesi trovata incapace di raffrenare i voli della fantasia, o le visioni del fanatismo. Il non curante sguardo, che gli uomini d'ingegno e di dottrina condiscendevano a gettare sopra la Rivelazione Cristiana, serviva solo a confermare la loro precipitata opinione, ed a persuaderli, che il principio dell'unità di Dio, che avrebbero potuto rispettare, veniva sfigurato dallo stravagante entusiasmo, ed annichilito dalle vane speculazioni de' nuovi settari. L'autore di un celebre dialogo, ch'è stato attribuito a Luciano, mentre affetta di trattare il misterioso soggetto della Trinità in uno stile ridicoloso e disprezzante, mostra di non conoscere la debolezza dell'umana ragione e l'imperscrutabile natura delle perfezioni Divine11.

      Poteva sembrar meno sorprendente, che il fondatore del Cristianesimo fosse rispettato da' suoi Discepoli non solamente come un sapiente ed un profeta, ma che fosse anche adorato come una divinità. I Politeisti eran disposti ad ammettere ogni articolo di fede, che paresse aver qualche rassomiglianza, per quanto distante ed imperfetta si fosse, colla mitologia popolare; e le leggende di Bacco, d'Ercole, o di Esculapio preparato avevano in qualche modo la loro immaginazione all'apparire del Figlio di Dio sotto una forma umana12. Ma stupivano, che i Cristiani abbandonassero i tempj di quegli antichi Eroi, che nell'infanzia del mondo avevano inventato le arti, instituite le leggi, e domati i tiranni, o i mostri che infestavano la terra, a fine di scegliere per oggetto esclusivo del religioso lor culto un oscuro maestro, che di fresco, ed appresso un popolo barbaro era stato sacrificato o alla malizia de' propri suoi nazionali, o alla gelosia del governo Romano. Il volgo Pagano, riservando la sua gratitudine solo per i benefizi temporali, rigettava l'inestimabile dono della vita e della immortalità, che all'uman genere si offeriva da Gesù Nazareno. La sua mansueta costanza in mezzo a crudeli e volontari tormenti, la sua general benevolenza, e la sublime semplicità delle sue azioni e del suo carattere non eran sufficienti, a giudizio di quegli uomini carnali, a compensar la mancanza di fama, di dominio e di fortuna; e mentre ricusavano di ammettere lo stupendo trionfo di lui sopra le potestà delle tenebre e della morte, malamente rappresentavano o insultavan la nascita equivoca, la vita vagabonda, e l'ignominiosa morte del divino Autore del Cristianesimo13.

      La reità personale, in cui ogni Cristiano era incorso nel preferire in tal modo il suo privato sentimento alla religion nazionale, veniva molto aggravata dal numero, e dall'unione de' colpevoli. Egli è ben noto, ed è già stato osservato, che la Romana politica riguardava con la massima gelosia e diffidenza qualunque associazione fra' propri sudditi, e che davansi con mano assai parca i privilegi de' corpi privati, sebbene instituiti per i più innocenti e benefici soggetti14. Le religiose assemblee dei Cristiani, che si eran separati dal culto pubblico, apparivano di una specie molto meno innocente: erano esse illegittime nel lor principio, e nelle lor conseguenze potean divenire pericolose; nè gl'Imperatori credevano di violar le leggi della giustizia, quando per la pace della società proibivano quelle segrete, ed alle volte notturne adunanze15. La pia disubbidienza de' Cristiani fece comparire la lor condotta, o forse i loro disegni in un aspetto molto più serio e colpevole: ed i Principi Romani, che avrebbero per avventura sofferto di lasciarsi piegare da una pronta sommissione, stimando interessato il lor onore nell'esecuzione de' lor comandi, qualche volta intrapresero, per mezzo di rigorosi gastighi, di domar questo spirito indipendente, che audacemente riconosceva un'autorità superiore a quella del Magistrato. Sembrava, che l'estensione e la durata di questa spirituale cospirazione la rendesse ogni giorno più meritevole del loro castigo. Abbiamo già veduto, che l'attivo e fortunato zelo de' Cristiani gli aveva insensibilmente diffusi per ogni Provincia, e quasi per ogni città dell'Impero. Pareva, che i nuovi convertiti rinunziassero alla propria famiglia e al proprio paese, e che si collegassero mediante un indissolubil nodo d'unione con una particolar società, che per ogni dove assumeva un carattere diverso dal resto del genere umano. Il tristo ed austero aspetto, che avevano, l'abborrimento per gli affari e piaceri comuni della vita, e le lor frequenti predizioni d'imminenti calamità16 inspiravano a' Pagani l'apprensione di qualche pericolo, che provenir potesse dalla nuova setta, ch'era tanto più sospetta quanto era più oscura. «Qualunque esser possa (dice Plinio) il principio della loro condotta, pare, che l'inflessibile ostinazione loro sia meritevole di gastigo17

      Le cautele, con le quali i Discepoli di Cristo celebravano gli uffizi della religione, furono a principio dettate dal timore e dalla necessità, ma in appresso si continuarono per elezione. Con imitare la tremenda secretezza, che usavasi ne' misteri Eleusini, si eran lusingati i Cristiani, che rendute avrebbero più rispettabili agli occhi del Mondo Pagano le sacre loro instituzioni18. Ma l'evento, come spesso accade nelle operazioni della sottile politica, deluse le loro brame ed aspettazioni. Si concluse, ch'essi nascondevano solamente ciò, che avrebbero avuto rossore di manifestare. La loro mal accorta prudenza diede un'occasione alla malizia d'inventare, ed alla sospettosa credulità di prestar fede alle orribili favole,


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<p>8</p>

Dagli argomenti di Celso, quali son rappresentati e confutati da Origene (l. V. p. 247, 259.) possiamo chiaramente scuoprire la distinzione, che si faceva fra il popolo Ebraico, e la setta Cristiana. Si veda nel Dialogo di Minuzio Felice una bella ed elegante descrizione de' sentimenti popolari intorno all'abbandonamento del culto stabilito.

<p>9</p>

Cur nullas aras habent? templa nulla? nulla nota simulacra?.. unde autem vel quis ille, aut ubi, Deus unicus, solitarius, destitutus? Minuc. Felix c. 10. L'interlocutore Pagano fa una distinzione in favor de' Giudei, che una volta ebbero un tempio, altari, vittime, ec.

<p>10</p>

Egli è difficile (dice Platone) di acquistare, e pericoloso il pubblicare la cognizione del vero Dio. Vedasi la Teologia de' Filosofi nella traduzione, che ha fatto in Francese l'Abate d'Olivet dell'opera di Tullio De natura Deorum Tom. 1. pag. 275.

<p>11</p>

L'autore del Filopatride tratta continuamente i Cristiani come una compagnia di sognatori entusiasti δαιμόνιοι, αἰθέριοι, αἰθεροβατοῦντες, ἀεροβατοῦντες ec. ed in un luogo manifestamente allude alla visione, in cui S. Paolo fu trasportato al terzo Cielo. In un altro luogo Triefonte, che rappresenta un Cristiano, dopo aver deriso gli Dei del Paganesimo propone un misterioso giuramento.

ΎΨιμέδοντα θέον, μέγαν, ἄμβροτον, οὐρανίωνα,Ύιον πατρὸς. πνεῦμα ἐη πατρὸς ἐππορευόμενον,Ἑν ἐκ τριῶν, καὶ ἑνὸς τρία ταῦτα νόμιζε.

Ἀριθμέειν με διδάσκεις (questa è la profana risposta di Critia) Καὶ ὅρκος ἡ ἀριθμητική, οῦκ οἶδα γὰρ τί λέγεις, ἐν τρία, τρία ἐν.

<p>12</p>

Secondo Giustino Martire (Apolog. major. c. 70. 85), il demonio, che aveva qualche imperfetta cognizione delle profezie, aveva finto a bella posta questa somiglianza, che potesse rimuovere, quantunque con diversi mezzi, tanto il Popolo che i Filosofi dall'abbracciar la fede di Cristo.

<p>13</p>

Nel primo e secondo libro d'Origene, Celso tratta la nascita e il carattere del nostro Salvatore col più empio disprezzo. L'oratore Libanio loda Porfirio e Giuliano per aver confutato la follia di una setta, che ad un uomo di Palestina morto dava il nome di Dio, e di figlio di Dio. Socrat. Hist. Eccl. III. 23.

<p>14</p>

L'Imperator Traiano ricusò la permissione di lasciar formare una compagnia di 150 spegnitori d'incendj per uso della città di Nicomedia. Egli non gradiva qualunque associazione. Vedi Plin. Epist. X. 42, 43.

<p>15</p>

Il Proconsole Plinio avea pubblicato un editto generale contro le adunanze illegittime. La prudenza de' Cristiani fece sospender le loro Agapi, ma era impossibile ch'essi omettessero l'esercizio del culto pubblico.

<p>16</p>

Siccome le profezie dell'Anticristo, del prossimo abbruciamento del mondo ec. irritavano que' Pagani, che non convertivano, se ne faceva menzione con cautela e riserva, e furono censurati i Montanisti per aver troppo liberamente svelato il pericoloso segreto. Vedi Mosem. p. 413.

<p>17</p>

Neque enim dubitabam, quodcumque esset quod faterentur (queste sono le parole di Plinio), pervicaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri.

<p>18</p>

Vedasi l'istoria Eccles. Mosem. Vol. I. pag. 101 e Spanem. Remarques sur les Césars, de Julien pag. 468. etc.