Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3. Edward Gibbon

Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3 - Edward Gibbon


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opinioni del prossimo fine del mondo e del terreno regno di Cristo sono soggette alle stesse difficoltà. Esse non potevano prendere neppure aspetto di probabilità, se prima gl'Infedeli non rimanevano convinti dalle verità della Rivelazione Cristiana. E la prima era inoltre in se tant'odiosa, tanto sensibilmente feriva la sensibilità de' Romani per la gloria e per la perpetuità dell'Impero, che fu una delle cagioni che nel fuoco delle persecuzioni gli stimolava ad incrudelire contro persone, le quali lor pareva, che bramassero l'estinzione di tutto il genero umano. Ma è tempo di passare alle digressioni.

      Chiunque abbia una leggiera tintura della storia della filosofia, sa che tra' Greci l'immortalità dell'anima dal solo Epicuro fu rigettata.

      I Romani sino a Catone universalmente la credettero. Dappoichè penetrò in Roma la filosofia di Epicuro, lo spirito di Scetticismo infettò alcuni di que' letterati; ma il popolo rimase costante nell'antica credenza, ch'era conforme a quella degl'Indiani, degli Assirj, degli Egizj, de' Galli, i Sacerdoti de' quali non avevano alcuna preeminenza sopra quelli de' Romani. Anzi allora fu, che all'Epicureismo sottentrò il nuovo Platonismo confederato colla filosofia Orientale, quando il Cristianesimo cominciava a predicare la vita avvenire; allora i filosofi, alzarono altare contro altare; e tutto fu inutile.

      Se l'Autore ha lette le dimostrazioni addotte da' moderni filosofi in favore dell'immortalità, doveva accennare i difetti per convincersi, che la filosofia co' più alti suoi sforzi non può indicarne se non che debolmente il desiderio e la speranza o al più la probabilità. Vero è che queste dimostrazioni, che non si assomigliano punto alle sue, non possono solleticare il suo gusto.

      Ne' libri di Mosè si fa molte volte non oscura menzione di questa dottrina: confessiamo però, ch'ella non è contenuta nell'economia dell'antica legge, ristretta dentro la sfera del temporale, sicchè se non vi si trova, non vi si dee trovare. L'Autore Inglese della divina legislazione di Mosè, che il Sig. Gibbon poteva consultare, parla molto acconciamente di questo argomento.

      I Sadducei la negarono, perchè quantunque ella si trovi ne' libri di Mosè, e più chiaramente ne' seguenti Scrittori, quelli si compiacquero di profanar la Scrittura colla Filosofia di Epicuro. Per la stessa ragione l'ammisero i Farisei, non per l'autorità della filosofia Orientale; se l'Autore non voglia distruggere quanto ha sostenuto sull'inflessibile ostinazione de' Giudei nel ricusar di unire alcuna istituzione con quelle di Mosè.

      Del resto egli riconosce questo dogma dettato dalla natura, benchè prima l'avesse creduto inspirato a pochi filosofi dalla vanità: lo confessa approvato dalla ragione a dispetto della filosofia, che co' più alti suoi sforzi non potè dimostrarlo: gli piace, che l'avesse adottato la superstizione, dopo d'aver dichiarato la Mitologia insufficiente a farlo ricevere; che i più savj Politeisti ne avevano scossa l'autorità; e che i voti del popolo Pagano diretti a Giove e ad Apollo risguardavano il solo presente. Finalmente gli Ebrei lo credevano come rivelato; ma perchè ciò nulla vi aggiungeva di probabilità, fu necessario, che lo rivelasse Gesù Cristo. Il Sig. Gibbon ha bisogno della sagacità d'un interprete più che santo.

      La distruzione prossima del mondo, la comparsa dell'Anticristo, e la venuta di Cristo giudice è una predizione contenuta formalmente nell'Evangelio e nell'Epistole di S. Paolo, di S. Pietro, di S. Giovanni: ella pel corso di 17 secoli non si è avverata: dunque questi libri non furono divinamente inspirati. Ecco l'obbiezione, ed ecco la risposta, che si raccoglie dalla bell'Opera del Sig. Hammond Scrittore Inglese più antico del nostro. Convien distinguere due venute di Gesù Cristo, l'una a punire i Giudei, e l'altra a giudicare tutto il genere umano. Quella nella Scrittura si predice imminente, ma questa si dà per incerta. Applicate i passi in quistione alla comparsa dei primi Eresiarchi denominati Anticristi da S. Giovanni, ed alla distruzione di Gerusalemme sotto Vespasiano, e troverete adempita la predizione nel tempo da' sacri Autori designato.

      Se il Sig. Gibbon avesse rammentato, che Origene fiorì molto prima di Lattanzio, ed ebbe gran numero di seguaci, non avrebbe detto, che da S. Giustino Martire fino a Lattanzio tutti i Padri riguardavano la dottrina del Millennio come una verità creduta da tutta la Chiesa. Origene sostenuto dal maggior numero distrusse sì fattamente l'errore, che avendo il Vescovo Nipote (molto prima di Lattanzio) tentato di ristabilirlo, non trovò, dice il Mosemio, se non pochi fanatici nelle campagne e ne' borghi dell'Egitto, che gli prestassero orecchio. Per altro diversamente ideavano questo regno i pochi Ortodossi, che avevano adottata tale chimera, e diversamente gli Eretici: finchè scopertasi l'origine nelle favole Giudaiche ed in Corinto, la Chiesa giustamente lo proscrisse. E siccome abbiamo dimostrato, che la riferita opinione nulla per se poteva influire ne' progressi del Cristianesimo, riesce insipido il sentirci dire, che quando l'edifizio della Chiesa fu quasi al termine, si tolse di mezzo il sostegno, che aveva servito un tempo per comodo della fabbrica.

      La riprovazione de' pretesi saggi e virtuosi Pagani ben intesa non offende nè l'umanità, nè la ragione del nostro secolo, ma come si debba intendere secondo la fede cattolica, nè noi possiamo brevemente spiegarlo, nè ai semplici nuoce il non saperlo. Giova l'udire, che questi sentimenti spargevano di amarezza un sistema d'amore; poichè tanto più ci maravigliamo, come l'Autore abbia riposta in questa dottrina la sua seconda cagion de' progressi del Cristianesimo, quanto più candidamente egli ne accenna gli effetti contrari.

Terza Conclusione che dee provare l'Autore. Il dono de' miracoli falsamente attribuito alla Chiesa primitiva fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e dei progressi del Cristianesimo

      Ristretto. I doni soprannaturali, che dicesi avere ricevuti i primi Cristiani, dovevano contribuire a convincere gl'Infedeli. Oltre i prodigi accidentali, la Chiesa si è arrogata sin dagli Apostoli una successione non interrotta di facoltà miracolose, come il dono delle lingue, le visioni e le profezie, il potere di scacciare i demonj, di sanar gli ammalati e di resuscitare i morti. Ireneo, che attribuisce il dono delle lingue ai suoi contemporanei, dice di se stesso, che predicando l'Evangelio nelle Gallie, doveva contrastare colle difficoltà di un dialetto barbaro. E se i Cristiani d'allora richiamavano a vita gli estinti, come ne fa testimonianza Ireneo, lo Scetticismo di que' tempi non si potrebbe spiegare. Teofilo ricusò di dar questa prova ad un Pagano che si sarebbe convertito. Del resto in ogni secolo si osserva una succession di miracoli; e verremmo a contraddirci, se negassimo nell'ottavo e nel decimo secolo al venerabile Beda e a S. Bernardo quella fede, che abbiamo con tanta generosità accordata nel secondo a Giustino e ad Ireneo. L'utilità poi de' miracoli è sempre la stessa: ogni secolo ha avuto degl'increduli da combattere, degli Eretici da convincere, degl'Infedeli da convertire. Frattanto confessando ogni uomo ragionevole esser già tal potere cassato, dovè togliersi alla Chiesa in un'epoca che noi non sappiamo terminare. Di presente regna un segreto Scetticismo: assuefatti da gran tempo ad osservare ed a rispettare l'ordine invariabile della natura, non siamo sufficientemente preparati a sostenere l'azione visibile della Divinità. Diversa era la situazion degli uomini al nascere del Cristianesimo. I più curiosi ed i più creduli fra' Pagani s'inducevano spesse volte ad entrare in una società, che si attribuiva un attual diritto alla potestà di far miracoli. I primitivi Cristiani battevan continuamente una strada mistica: i prodigi, ch'eglino si figuravano di operare, li disponevano a ricevere colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio ed i misteri, che per loro confessione sorpassavano le forze del loro intelletto. Quest'intimo convincimento fu celebrato sotto nome di fede, e raccomandato come il principale e forse l'unico merito del Cristiano, poichè secondo i più rigidi Dottori le virtù morali, che possono praticarsi egualmente dagl'Infedeli, son prive d'ogni valore o efficacia per operare la nostra giustificazione (p. 147).

      Risposta. Che il dono de' miracoli dalla primitiva Chiesa vantato ne agevolasse naturalmente i progressi, l'Autore neppure ha tentato di provarlo: ci avverte a principio, che ciò doveva contribuire a convincere gl'Infedeli: in tutto il restante perde di vista la conclusione; e finalmente termina con asserire, che i Gentili entravano per curiosità o per credulità nella Chiesa che vantava il poter de' miracoli.

      Tanta parsimonia qui non è fuor di ragione. Imperciocchè impegnatosi egli a provare, ch'erano illusioni o imposture i miracoli, che all'antica Chiesa si attribuiscono, il mettersi poscia a seriamente provare, che l'imposture e l'illusioni contribuivano a convincere gl'Infedeli, sarebbe stato lo stesso che contraddirsi.

      Quindi


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