Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867. Ferrari Pio Vittorio
in dialetto.
Le aveva capite anche troppo bene, l'amico! Come campione militare però bisogna confessare che era in molto difetto; è naturale quindi che fosse anche sempre in sospetto!
Usciti di trattoria, feci una nuova e più solenne filippica all'amico che ad ogni istante con simili imprudenze comprometteva la nostra posizione.
Erano intanto già passati quattro o cinque giorni nè si vedeva alcuno nè si sapeva nulla dei casi nostri.
Incominciavamo, per dir vero, a dubitare della serietà dell'impresa, quando un giorno, camminando per il Corso, vedemmo gran folla di gente sulla piazzetta di S. Marcello e di fronte alla chiesa la carrozza del Papa cogli staffieri smontati e le guardie nobili che facevano ala. Ci fermammo a guardare e di lì a poco vedemmo uscire di chiesa Pio IX in persona, bianco vestito ed attorniato, assediato letteralmente da donnicciuole, da bambini, da vecchi che volevano baciargli la mano e le vesti. Egli benediva tutti e lentamente avanzandosi montò in carrozza; le guardie si misero ai lati di essa e via per il Corso a gran trotto.
Era verso sera, proprio nell'ora in cui il Corso di Roma è più animato. Lo spettacolo che ci si offeriva al passaggio della berlina papale era quello di un'onda marina procedente maestosa. Tutta la gente sostava e si prosternava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E via via così fino a porta del Popolo.
Noi ci fissammo in viso l'un l'altro come estatici a quello spettacolo; quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: Che siam venuti a fare noi in Roma? la rivoluzione?..
Un giorno per il Corso adocchiai uno dei compagni nostri e ammiccatogli feci cenno a lui di seguirmi. Lo trassi in disparte in un vicolo nascosto e presi ad interrogarlo ansiosamente sui nostri disegni e sulle speranze concepite; ma pur troppo compresi ch'ei ne sapeva quanto noi. Uniche notizie che ebbi, furono queste, che essi erano sempre all'Hôtel Roma, come noi al Minerva e che il capo e direttore della cospirazione era Francesco Cucchi.
L'indomani di buon mattino andai all'Hôtel Roma sperando di aver nuove notizie. Erano ancora a letto e faceva loro compagnia quel tipo originalissimo ch'era l'amico Andreuzzi, il giovine. Egli era entusiasta dell'impresa ed io, che n'ero scoraggiatissimo, cadevo proprio a proposito. Mi lamentavo che non si sapeva nulla di nulla ed egli a rispondermi che le rivoluzioni van fatte così, che noi non avevamo altro dovere che di star pronti e quand'era il momento, scendere in piazza.
– E le armi dove sono?
– Le armi ci sono.
– Ma dove?
– Ci sono.
– E la gente?
– C'è.
– Ma dove?
– Ti dico che c'è.
– Ma dove? io non l'ho veduta.
– Non serve: lo devi credere.
– Allora piglieremo Roma colla fede.
– Insomma tu devi tacere.
– La piglieremo col silenzio allora.
– Meglio che colle tue chiacchiere, f… d'un moderato! e giù una grandine di epiteti e di cazzotti dati e scambiati.
Erano queste le nostre esercitazioni, le nostre manovre.
Altro originale per disinvolta sfrontatezza era Augusto Merluzzi, ora morto, poveretto!
Passeggiava un dì per il Corso con uno de' suoi compagni: a un tratto questi vedendo passare una botte diè un grido di stupore, la carrozza fu fermata e ne scese un prete, e lì esclamazioni di stupore e domande:
– Ma come mai ti trovi qui? Ed io che ti credevo a Firenze! Che ci sei venuto a fare? – Il povero amico era impacciato e non sapeva che rispondere e balbettava impaperandosi.
Pronto venne in suo aiuto il Merluzzi:
– Viaggiamo per conto della casa A e trattiamo pure qualche affare per la casa B; siamo qui da parecchi giorni e ci tratterremo ancora dell'altro, se la piazza ci offrirà da lavorare…
– O non mi secchi un po' colle sue chiacchiere! interruppe bruscamente il prete. Questi è mio fratello.
Il merluzzo restò baccalà.
I giorni si seguivano l'uno all'altro e noi continuavamo a fare i viaggiatori, gli inglesi, i touristi ma nell'animo nostro volgevano pensieri tristissimi ed un lento scoraggiamento cominciava ad impadronirsi di noi.
Venne finalmente il momento in cui ci fu annunziata imminente la sommossa, ed anzi fummo avvertiti di tenerci pronti perchè alla sera il Comitato ci avrebbe tolti dall'albergo e trasportati in una casa privata.
Regolammo i nostri conti con l'Hôtel Minerva e alla sera attendevamo i signori del Comitato.
IV.
Casa Giovanelli
Il cosidetto Comitato nazionale romano fu, a dir vero, tutt'altro che benemerito dell'impresa da noi tentata, anzi l'osteggiò a tutto potere, perchè non si agiva d'accordo col governo di re Vittorio.
Chi aiutò realmente il Cucchi, il Castellazzo, il Guerzoni, l'Adamoli, il Pavesi e gli altri capi convenuti qui in Roma, fu il Comitato o Centro d'insurrezione; ed era esso appunto che in quella sera si occupava di noi.
Alle 8 pomeridiane fu bussato alla porta della nostra camera all'albergo.
– Chi è? Avanti!
Entrarono un signore alto e robusto dalla fisionomia franca ed aperta ed un giovanotto bruno, dagli occhi nerissimi e dai lineamenti delicati e simpatici.
Il primo era Napoleone Parboni, che della fisionomia e della figura nulla ha per anco mutato. L'altro era un certo Augusto, il cui cognome ora mi sfugge e del quale poscia non mi fu possibile aver più traccia.
Riconosciutici scambievolmente, fu convenuto che saremmo partiti con Augusto, il quale ci avrebbe condotti in vettura fino a Santa Maria Maggiore, donde, licenziato il cocchiere, saremmo andati a piedi alla nostra destinazione.
E così fu fatto.
Nessun inconveniente, nessun contrattempo nella partenza. All'uscir dall'albergo si pagò il solito pedaggio, e poi via. Per strada incontrammo il carro dei morti ed io ne trassi cattivo augurio.
Poco discosto dalla piazza dell'Esquilino, in via Graziosa (ora via Cavour), esisteva allora a mano diritta una gradinata che metteva ad un terrapieno, donde poi si accedeva al vicolo dei Quattro Cantoni. Appena imboccato questo, a mano diritta, c'era un vicolo cieco, una specie di cortiletto. In una casa prospettante in questo vicolo ci condusse l'amico Augusto e vi fummo ricevuti con molta cordialità.
I moderni lavori hanno mutato faccia del tutto a quella località, talchè chi si trovi nella bella e maestosa via Cavour mal cercherebbe i meandri e gli angiporti di via Graziosa.
Il vicolo Quattro Cantoni però esiste tuttora e vi si accede per una comoda scalea, salita la quale, subito a mano diritta si imbocca il vicolo cieco. Questo è tuttora immutato e la casa ove noi abitammo, per chi la volesse conoscere, porta ora il num. 72-B ed è alloggio consueto di ciociari e di erbivendoli.
Stranezza del caso! Vent'anni dopo i fatti che sto narrando, io venni a stabilirmi colla famiglia in Roma. Gira e rigira per trovar quartiere, dopo averne visitati parecchi, finalmente ne trovai uno di mio gradimento in via Cavour; vi ci stabilimmo e solo dopo due e tre mesi che vi abitavo, riconobbi che le mie finestre prospettavano proprio sul vicolo Quattro Cantoni e che il vicolo cieco era quasi di fronte a casa mia!
L'uomo che dovea ospitarci, era un certo Giovanelli calzolaio, o meglio ciabattino, morto pur esso alcuni anni or sono. Pochi mesi prima di morire venne a trovarmi. Di salute stava ottimamente, benchè avesse ottant'anni, ma la vista l'avea quasi perduta.
Il suo nome per me e per i miei compagni di quei giorni assurse all'onore di ricordo incancellabile. Aveva famiglia composta di una donna, due ragazze ed un figlio. Una delle ragazze era sposa ed il fidanzato veniva ogni sera a vederla. Era un altro Augusto, compositore tipografo, buonissimo figliuolo e da cui nulla c'era a temere.
Licenziato l'Augusto primo