La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I. Various

La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I - Various


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poi dai Comuni, pel gradino delle Signorie, si ascese ai Principati, l'una e l'altra delle due grandi Potestà politiche preoccupanti le funzioni vitali dell'organismo italiano, si trovarono a molto miglior agio per maneggiare e patteggiare le respettive ambizioni. E d'allora in poi l'Impero tradizionale si straniò sempre più dall'Italia, ma sanzionando e convalidando i Principati che a ventura se la spartivano, ed esso rimanendo come quasi un padrone locatore di questa sua ideale proprietà. Nei Pontefici poi fermentarono sempre più acremente i maligni umori, pei quali sullo spirituale prevalse il politico o, a dirlo con appropriata parola, la mondanità: la mondanità che rinnegava il santo vangelo di Cristo – non essere di questo mondo il suo regno – ; la mondanità, che cooperò all'annullamento di quel grande moto di civiltà cristiana, che vollero, e avrebber potuto, essere le Crociate; la mondanità, che dopo aver cagionato Avignone e lo scisma d'Occidente, segnò il ritorno della sede pontificia al legittimo centro della cattolica civiltà. Roma, lo segnò e lo disonorò con le spedizioni di sanguinarii Legati per tutta Roma-magna: in quella Romagna dove un secolo appresso il duca Valentino avrebbe, condegnamente al padre suo papa Borgia, menata la infausta gesta del poter temporale, e Giulio II avrebbe sfruttato, a solo benefizio di questo malaugurato potere, il nobilissimo sentimento della nazionale indipendenza. Infausto il poter temporale, alla Chiesa, poichè assorbiva in una signoria del tutto secolaresca le aspirazioni teocratiche, che, se non evangeliche, erano state almeno sacerdotali: infausto all'Italia, nella quale cotesto fatto suggellava la impossibilità di essere nazione una ed intera; pregiudicandosene poi immensamente la religione, in quanto si mescolavano le cose dello spirito e gl'interessi materiali, con scandalo delle anime pie e dei più nobili intelletti. E lo scandalo addivenne presto una irreparabile calamità della Chiesa, quando nello splendido pontificato mediceo di Leone X dilagata la corruzione, se ne rompeva con la Protesta nordica l'unità religiosa, che lo Scisma orientale aveva già lacerata.

      E intanto la barbarie Musulmana, invano deprecata dall'ultimo e quasi postumo Papa Crociato, il buono e magnanimo Pio II, si era insediata minacciosa di qua dal Bosforo, calpestando le ultime realtà dell'Impero latino e cristiano: la barbarie Musulmana: questa sozza, che troppo lungamente si è poi alimentata di sangue cristiano… e di egoismo europeo. Fra la Protesta di Lutero e a pochi anni di distanza l'Assedio di Firenze: fra il papato di Leone e l'altro quasi immediato papato mediceo di Clemente VII, alle cui mani le orde imperiali rinnovano col Sacco di Roma le geste dei Goti e dei Vandali; patiscono gli estremi danni, degnamente congiunte, le due divine animatrici di tanta italiana grandezza nell'età dei Comuni, la fede e la libertà. Il rogo del Savonarola, che ha sperato di salvarle insieme, illumina sinistramente la loro rovina, e investe di sanguigni riflessi la corona dei Cesari che papa Clemente pone sul capo di Carlo V, il gran bargello d'Europa; corona consacrata da mani fatte a ciò degne pel consumato matricidio fiorentino! Oggi cotesti due pontefici, Leone e Clemente, riposano l'uno dirimpetto all'altro nella Minerva di Roma: ma l'urna che in mezzo ai due monumenti superbi custodisce alla pia ombra dell'altare le ossa verginali di Caterina senese, l'eroina dell'amore e della carità, che ben altro sperò alla fede di Cristo riconducendone da Avignone a Roma i vicarii, cotesta urna in mezzo a quelle due statue, inchiude la più acerba condanna che, in nome di tuttociò che è santo, possa aggravarsi sul papato mondano e politico.

      Con la caduta della libertà d'Italia, e la consegna di lei schiava e mutilata nelle mani dei non aventi, dinanzi all'eterna giustizia, alcun diritto su lei, la storia de' suoi Popoli cessa per non essere più che la storia de' suoi Stati. E possiamo dire de' suoi Principi: e principi stranieri più o meno, o portati o retti dallo straniero: senza che facciamo grande torto al poco, e non bene, sopravvissuto di Stati repubblicani: sol che si rilevino (oltre quella, tutta a sè, dello Stato Ecclesiastico) due eccezioni gloriose: – una grande Repubblica, Venezia, cui l'intendimento all'Oriente alienò, ne' secoli suoi vigorosi, da qualsiasi egemonia italica; e che, rinchiusa nel suo aristocratico pomerio, fu distrutta di lenta decrepitezza anche prima che d'un colpo a tradimento finita; – e un Ducato alpigiano, domestico retaggio di valorosi, che bilanciate alcun poco le proprie aspirazioni fra il di là e il di qua de' suoi monti, si affermava risolutamente italiano, quando appunto addosso all'Italia si aggravò la servitù: e sulla fronte di quei Duchi la corona di Re era predestinata a divenire la corona popolare d'Italia.

      Ma prima che ciò fosse, doveva l'Italia discendere tutta intera la via dolorosa della politica decadenza, sino all'annientamento suo in espressione geografica, terra di morti, nazione da carnevale, paese (tutt'al più) dove i poeti venissero a veder fiorire il cedro e l'arancio, il mirto e l'alloro: dovevano i suoi Stati esser ridotti alla condizione di merce quotabile e permutabile nel mercato della diplomazia europea: dovevano, non per la gloria del nome italiano, ma per la vita nostra utile di nazione, andar frustrati e dispersi il lavorio scientifico sperimentale del secolo XVII; il movimento di civili e sociali riforme del XVIII, che anticipava negli ordini ideali la rivoluzione francese; e finalmente, doveva non essere per l'Italia che una fuggitiva luminosa meteora il grande travolgimento napoleonico: nel quale però il braccio italiano si ritemprava alle armi, e il Regno italico non rinnovava soltanto una memoria od un nome che suona nazione, ma rifioriva senno e operosità di cittadinanza cosciente, e la corona di Monza cingeva, per que' pochi anni di gloria e di ebra violenza, la fronte cesarea dell'abolitore del Sacro Romano Impero.

      Col secondo decennio del secolo che ora tramonta, e propriamente con l'infausto 1815, il ribadimento delle imperiali catene trisecolari, la servitù dei popoli concordata in Santa Alleanza dalle Potenze, la sanzione del Pontefice, restaurato re, a quest'altra riattiva violenza, furono i provvidenziali flagelli, sotto il cui stimolo la coscienza nazionale si svegliò finalmente, per non assopirsi più mai. Ammaestrava gl'Italiani tutto un passato d'illusioni, di sventure, di errori, di colpe, dominato fatalmente dalla bugiarda idealità dell'Impero, che subordinando l'Italia ad una sopravvivenza nominale di Roma pagana, aveva insieme e impedito la sua personalità reale di nazione moderna, e soggettata la Chiesa di Gesù alle funzioni d'un ministero essenzialmente politico. Ammaestramento che era sublimato dalle eroiche prove, confermato dalle repressioni sanguinose, consacrato dal martirio: le fosse dello Spielberg, le forche di Modena, i Bandiera fucilati a Cosenza, preparavano l'era nuova d'Italia. Il moto dei popoli sforzava la coscienza dei principi: e la prima guerra d'indipendenza, che si svolge tra la benedizione del Pontefice piamente ribelle, per breve ora, all'Impero, e il sacrifizio del Re che, devoto al patto giurato, non abbandona il campo dell'ultima battaglia che per cercare l'esilio di Oporto; quella prima guerra, in cui tutta Italia, se non ancora con le armi, ma coi cuori, combatte; alla quale Milano dà le cinque giornate, Toscana i giovanetti veterani di Curtatone e Montanara, Messina Venezia Roma gli assedii gloriosi, Palermo e Bologna i vittoriosi impeti del braccio plebeo, Brescia lo strazio de' suoi eroici insorti, Napoli le sue galere nobilitate dal fior dell'ingegno e del cuore, e il Piemonte tutto sè stesso: quella guerra, di nazione e di popolo, annunzia al mondo che l'Italia ha finalmente ritrovato il vero esser suo. La sconfitta delle armi è vittoria dell'idea: lo spergiuro dei Principi, legittimi per convenzione diplomatica, ma non nel diritto storico della nazione, toglie di mezzo il generoso equivoco di quel primo movimento: e la questione italiana, imposta ormai alla vecchia tenace Europa di Carlo V e di Metternich, la questione italiana maturata con ben altri auspicii nel decennio di preparazione alla guerra seconda, trionferà in questa e nelle sue conseguenze, e trionferanno con essa il diritto e la civiltà. Nel marzo del 1861 l'Italia, nel suo primo parlamento, proclama il suo Re e la sua capitale. E quando l'Emanuele della nazione mancherà, innanzi tempo, ai destini di lei rivendicata e costituita, non ne accoglieranno la salma lacrimata i sotterranei dell'avita Superga, ma il Pantheon d'Agrippa, il grande monumento imperiale, darà in Roma cattolica la tomba legittima all'unificatore d'Italia: legittima in Roma, e non altrove che in Roma, al cui nome politicamente abusato fu incatenata per secoli, con doppia catena, la statuale esistenza d'Italia e la sua unità di nazione.

      Se l'alba d'un lieto giorno spunterà mai, che annunzi conciliate, nell'augusta serena libertà del pensiero, le energie della fede e della scienza verso il divino ignoto che, volenti o ribelli, consapevoli o ignari o dimentichi, ci predomina tutti; quel giorno incoroneranno quella tomba i fiori d'una primavera italica, che noi non siamo destinati a vedere; e la civiltà umana, novellamente attratta verso la cosmopoli eterna, segnerà forse dall'unità d'Italia un nuovo ordine di secoli, nel quale sia restituita ai popoli anche la consolatrice unità del consentire almeno in una speranza non offuscata da vapori mondani.

      IV

      Ma


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