La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III. Various

La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III - Various


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concetto morale è lo stesso come dire tesi; e la vita rappresentata con onesta schiettezza porge sempre da sè medesima un insegnamento, tanto meno volgare quanto più acuta e profonda sia stata l'osservazione.

      Del Ferrari, al quale spetterà, io credo, un'intiera lettura nella serie che la benemerita Società vorrà forse darci l'anno venturo, non ho tempo di parlarvi come egli si meriterebbe; tanto già nei primi anni del suo lavoro drammatico fece di bello e di buono. Non è molto che Giovanni Sforza ha edito e, come egli sa, illustrato Baltroméo calzolaro, una commedia in dialetto di Massa che il Ferrari compose in quella cara città nell'inverno del 1847-48, padroneggiando non pur quel dialetto, ma altresì, di primo impeto (come accade solo alle nature generose), il palcoscenico. Il Goldoni riviveva in quel giovane venticinquenne; il Goldoni delle Baruffe e del Campielo, stupendo fotografo della vita popolare. In alcune scene Baltroméo calzolaro è cosa perfetta. Ma curiosità singolare gli viene dall'esservi già dentro il nucleo anche di quel marchese Colombi, di gioiosa memoria, che avrà poi tanta parte in La Satira e Parini. Perchè il Ferrari tendeva intorno a sè l'occhio e l'orecchio; e non altrimenti notava gl'ingenui costumi ed affetti del calzolaio ubriacone, che gli spropositi del violinista Filippo Chelussi, marito d'una marchesa, e fattosi mecenate di bande cittadine. Bartolommeo, ne' fumi del vino, esclama, come aveva fatto più d'una volta costui, e come farà il marchese Colombi: – Oh! Tasso! oh! Tasso! io resto attonito e non posso attribuire. —

      Innanzi di lasciargli rappresentare il suo grande emulo nella pittura de' costumi, Giuseppe Parini, volle il Goldoni dal suo discepolo Ferrari l'omaggio d'una commedia: e nel 1851 gli fece suggerire da un amico di leggere le Memorie sue. Queste inspirarono la commedia famosa in cui rivissero e il Goldoni e la sua Nicoletta e i gentiluomini e i critici veneziani del 1749 in una tale snellezza di scene e di dialogo, in una tale intima ed esterna comicità, che poche commedie nostre possono certo starle a pari. Donde scappassero fuori questa, esuberante di vita e di forza comica, e due o tre altre commedie del Ferrari rigogliose e promettenti, si chiese il Carducci, e rispose che non si saprebbe ben dire. E se il Carducci non lo seppe, davvero non posso dirvelo io. Fatto sta che doverono cooperarvi e infondervisi, alcun che dell'anima stessa del Goldoni assorbita dal Ferrari su dai volumi delle Memorie, l'indole nativamente comica di lui, alcun che degli esempii recenti francesi e italiani che ho accennati sopra. Resta a ogni modo dinanzi anche a me, non solo quell'«irreducibile» che gli estetici confessano a malincuore nell'analisi di qualsiasi opera d'arte, ma altresì un piccolo problema di critica storica che metterebbe il conto di tentare quando, non foss'altro, ne avessimo oggi il tempo e fosse questo il luogo più adatto.

      Una poltrona storica è del 1853, La satira e Parini è del 1857, La medseina d'onna ragazza amalèda, in modenese, è del 1859. E come del Baltroméo calzolaro si ebbe poi la riduzione in lingua letteraria (troppo letteraria) nel Codicillo dello zio Venanzio, così la vispa commediola modenese dovè adattarsi all'italiano nella Medicina d'una ragazza malata. L'aver maneggiato i dialetti giovò, comunque sia, al Ferrari, per la realtà dell'azione, per la vivezza del dialogo: chè il raccostarsi al popolo, come dà forza per tanta parte della vita sociale e morale, così anche per la vita artistica porge utili consigli e una vigoria schietta e fresca. La satira e Parini, se non vale forse quanto Goldoni e le sue sedici commedie, restò bell'esempio di commedia storica in versi, e ha gettato nella memoria di tutti un personaggio, il marchese Colombi, co' suoi proverbiali spropositi.

      Il resto dell'opera del Ferrari non tocca a me accennarlo; e lascio ben volentieri che altri, dopo queste sue prime e bellissime prove, lo studii, come si conviene, l'anno venturo, mostrandocelo nei pregi e nei difetti: principe, per anni parecchi, della scena italiana.

      IV

      Se non tutto buona, dunque, ma curiosa e promettente, e nel Ferrari più di una volta quasi perfetta, fu la produzione drammatica dal 1848-49 al 1861, già ci è qua e là apparso che gli attori valsero allora quasi sempre più degli autori: onde, mentre le nostre tragedie e commedie non varcarono le Alpi, li varcarono essi con la fama e con la persona loro, e seppero vincervi aspre battaglie, con vittorie onorevoli alla patria oppressa. Dopo il De Marini, Gustavo Modena; dopo Francesco Augusto Bon, Cesare Dondini e Cesare Rossi; dopo la Internari e la Pelzet, Adelaide Ristori; e con la Ristori, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini.

      Senza porre odiosi e impossibili raffronti, tutti convengono nella eccellenza e preminenza del Modena. Una mente come egli ebbe, e la dimostrano anche oggi le lettere sue; un animo quale egli ebbe, di patriotta, e lo dimostrano i casi della sua vita; un cuore, quale egli ebbe, di uomo, e lo dimostra l'indomabile amore della giovinetta svizzera che, lasciando gli agi della vita paterna, volle seguirlo su' palcoscenici e nelle campagne di guerra, e fu compagna sua sempre innamorata, e fu per lui innamorata dell'Italia, non mai stanca nel servire i feriti delle nostre battaglie; mente, animo, cuore, cioè un tutto indivisibile di singolare altezza, erano troppo più di quel che occorresse a un attore drammatico. E il Modena fu apostolo e milite di libertà non meno che attore. A lui attore scriveva reverente il Manzoni; a lui oratore eloquente nella Assemblea toscana, cui Firenze lo aveva eletto con oltre diecimila voti, non so se applaudì, ma certo consentì trepidante di commozione, la maggior parte di quel consesso.

      Il racconto del come egli rappresentava il Saul non è un aiuto critico, come pochi ne abbiamo, per intendere meglio quella nobile figura dell'Alfieri? E a leggere come declamava dell'Adelchi la narrazione del diacono Martino traverso le Alpi, facendo sentire la solitudine enorme delle valli, e aprirsi al sole sorgente con un crepitìo i coni silvestri de' pini; a leggere come declamava Dante, traendo dal verso possente gli effetti che noi vi rintracciamo, ohimè, con la critica paziente; ci riempie anche oggi di stupore.

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