La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I. Various
quella prodigalità burlesca di ori e marmi falsi, quel barocco da poco prezzo che hanno ridotte le vie delle nostre città grandi a orribili imposture della bellezza, grandezza e ricchezza. I caffè e le botteghe erano in stanze piccole e basse, come se ne vedono ancora a Venezia e a Mosca, i caffè soprattutto non arieggiavano a falsi fôri romani, ad Alambre di cartapesta.
Anche i bisogni erano molto meno numerosi. Pochissimi i giornali; pochi i libri e letti solo da un piccol numero; rari i viaggi. Nè ferrovie nè tranvai. I signori avevano le ville per l'estate nei pressi della città stessa dove abitavano. Le alpi non erano state ancora inventate; pochi i luoghi di bagnature celebri, poche le acque e famose per una reputazione di secoli. Non esistevano ancora le macchine da cucire, le biciclette, il gaz illuminante, il petrolio; non si conoscevano ancora gli innumerevoli prodotti chimici, quei surrogati e quelle falsificazioni, che hanno poi tanto complicata e popolata di insidie la nostra esistenza. Un uomo si faceva fare il ritratto, forse una sola volta durante tutta la sua vita. Il vivere insomma era più semplice e rozzo, ma anche più schietto; i divertimenti erano pochi di numero, lo sport ancora in fasce; le abitudini dei figli ripetevano quelle dei padri, che a lor volta avevano ereditate quelle dei nonni. Una generazione passava, prima che un nuovo bisogno si fissasse nelle abitudini di tutti; lo spirito della tradizione reggeva la famiglia e la vita privata, come il governo dello Stato.
Non crediate che, riferendosi a cose così umili, queste considerazioni siano futili. Esse hanno invece una importanza capitale: perchè la differenza essenziale tra la vecchia Europa e la nuova, tra la vecchia e la nuova Italia, il mutamento essenziale da cui derivarono gli altri fu proprio questo: che nella vecchia Europa ed in Italia vigeva un tenor di vita semplice, con bisogni sempre eguali o lentamente crescenti; nella nuova, un tenor di vita con bisogni crescenti indefinitamente e rapidamente. Un governo unitario ha potuto alla fine costituirsi in Italia, perchè trovò un sostegno in questa nuova maniera di vivere, divenuta comune nel popolo dopo il 1860; mentre gli antichi governi avevano capito che non avrebbero potuto reggersi a lungo, se le antiche forme del vivere, semplici e parsimoniose, sparivano; e avevano in vari modi cercato di salvare i loro popoli dalla seduzione della nuova civiltà, che prosperava in Inghilterra e in Francia.
Molti furono i mezzi; primo tra tutti, la oppressione della classe che sola poteva farsi veicolo della nuova civiltà forestiera, la borghesia istruita; oppressione esercitata per mezzo di una curiosa alleanza della aristocrazia e del popolino. I re si fecero i tutori della canaglia; l'aristocrazia, che rappresentava la ricchezza fondata sulla proprietà della terra, la devozione alla Chiesa e alla monarchia assoluta, l'orgoglio gentilizio che vuol sovrastare alle capacità personali, prese a proteggere l'infimo popolino, a mantenerlo grasso e ignorante. Madre per la plebe, la monarchia aristocratica era invece matrigna per il ceto medio; che essa cercava di umiliare in ogni modo, impedendogli di crescere, di imparare, di arricchire; consentendogli appena di vivacchiare oscuramente, con l'elemosina di magri impiegucci o con l'esercizio di professioni, ma a condizione di andare a messa e di esser fedele al re: permettendogli al più di darsi a studi punto malsani e pericolosi, come decifrare iscrizioni latine o annotare vecchi testi di lingua. A elaborare questo disegno bizzarro di una società aristocratica e plebea, fanaticamente conservatrice in ogni cosa, più che ad altro, hanno faticato, nei diciotto anni che precedettero il 1848, gli Stati italiani, dall'Austria a quel Ferdinando II, tipo curioso di re ingegnoso e ignorante, abile e ingenuo, che ha impersonato forse meglio di ogni altro sovrano questa idea dello stato monarchico lazzaronesco.
Quei 18 anni furono infatti il momento della suprema fatica, per i governi della vecchia Italia. Correvano i tempi in cui cominciavano a fiorire in Inghilterra e in Francia i nuovi commerci e la nuova industria meccanica, che hanno contribuito tanto a convertire l'antico tenor di vita modesto e tradizionale, nel nuovo, sibaritico e con bisogni sempre più numerosi; che hanno mutato l'antico assetto delle fortune, rese labili tutte le ricchezze, ridotta l'essenza della società moderna a un divenire continuo. Per queste ragioni gli antichi governi, soprattutto l'impero d'Austria e il regno delle Due Sicilie, si adoperarono a strozzare in culla le nuove industrie e i nuovi commerci. Non era lecito aprire un opificio senza permesso speciale del governo; ma le formalità erano tante, tante le condizioni, le restrizioni, i rinvii, le diffidenze e le cautele delle amministrazioni, che introdurre una industria nuova era quasi così difficile come costituire una società segreta. Inoltre, come sempre succede, la legislazione improntava di sè il sentimento pubblico, il quale era portato a riguardare con diffidenza ogni impresa industriale. Così in Lombardia si notano, sino al 1848, solamente progressi agricoli, nella coltivazione del gelso, ad esempio; ma nessun progresso industriale2. Ancor più ostinata fu la resistenza del governo borbonico, che durò sino all'ultimo; onde le concessioni industriali di quegli anni si possono contare tanto sono poche; e qualche volta sono motivate con ragioni bizzarre, che mostrano l'intima natura di quel governo; come quel permesso dato al marchese Patrizi, nel 1858, di costruire due molini sul Sebeto, ma a condizione di far dire un certo numero di messe in suffragio delle anime dei terrazzani. E la concessione era data, dice espressamente il decreto, «avuto riguardo ai vantaggi spirituali degli abitanti di quella pianura»3.
Dallo stesso ordine di idee nasceva la politica doganale della vecchia Italia, anche essa uno dei tanti processi di pietrificazione applicati alla società italiana. A differenza dell'Italia contemporanea, gli Stati italiani di prima del 1848 fecero libera la importazione del grano; o la tassarono di diritti minimi, imposti per fini fiscali, non per favorire come si fece dopo un «ordine privilegiato dalla fame pubblica.» Così la Toscana, che nel 1842 aveva stabilito un leggero dazio sul grano, sopravvenuta la carestia nel 1846 lo abolì senza tanto cavillare e tergiversare, come fece, cinquant'anni dopo, un altro governo; perchè il popolino doveva vivere ben pasciuto; le derrate dovevano vendersi a prezzi vilissimi; i pericoli delle carestie esser ridotti a meno che si potesse da saggie misure di previdenza pubblica. Il Duca di Modena accumulava nei granai pubblici, durante gli anni di abbondanza, per sovvenire al popolo negli anni magri, e salvarlo dagli usurai e dalla fame. Pane in piazza, era il primo principio di quell'arte antica di Stato.
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