La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I. Various
che a tentar di adattare (come qualcuno si è provato) alle Chansons la toscanità degli Scherzi, anche quando i soggetti combaciano e si rasentano, si va nel goffo; e qualche imitazione in stile giustesco dal Béranger, per esempio, dal Bon Dieu quella del Creatore e il suo mondo, è, fra le apocrife appioppate al Giusti, delle più intrinsecamente aliene, nonostante le apparenze, dal fare autentico e legittimo di lui.
Il quale, è poi da aggiungere che se avesse potuto ascoltare il giudizio del critico francese, non ne avrebbe fatte grandi meraviglie, perchè già si era trovato, com'egli ci racconta, a sentirsi dimandare da un tale qui in casa sua, se avesse letto altro che romanzi e giornali; e ci racconta altresì, come «prontissimo ad immaginare, e assai lesto ad abbozzare, era poi una tartaruga a dare l'ultima mano, e credeva che la morte sola gli avrebbe portato via il pennello de' ritocchi»: dichiarando espressamente, che quel suo «modo di dir le cose alla casalinga» non provava nulla, e che pur troppo il suo difetto era di non contentarsi mai. E séguita confessando le proprie colpe: la stringatezza cercata; lo studio di apparire; l'aver avuto a combattere con quei metri, «facili in apparenza, difficilissimi in sostanza; i quali se non ti fai sostegno dell'inversione, ti slabbrano da tutte le parti», e la inversione poi va a finire nello «scontorcimento». «Gino Capponi mi aveva ammonito più e più volte d'andar per le piane, d'esser semplice e corrente, di lasciare le lambiccature, le finezze sopraffini, le frasi e le parole vistose; perchè, dice il proverbio, chi troppo s'assottiglia si scavezza…» Insomma, a lasciarlo dire, e a dargli retta senz'altro, cioè senza far la tara all'ipocondria di quel povero organismo malato, si finirebbe… altro che l'«improvvisatore» denunziato dal Planche, o il «poeta conversevole» che io ho cominciato, Signore mie, dal ripresentarvi come una vecchia comune conoscenza… si finirebbe, dico, a concludere che Giuseppe Giusti è uno dei più pedanteschi e impacciati scrittori che abbiano mai esercitata la pazienza delle nove sorelle.
Il vero è, ch'egli aveva, come nessuno de' contemporanei suoi, anche de' maggiori, riassunta alle lettere la toscanità della lingua, tornando alle fonti genuine del parlar popolare, ma questo poi atteggiando con vigoria d'artista in quelle forme di satira che gli eran balzate alle mani, nemmen lui sapeva come, e esperimentatele dapprima in gingilli di poco sugo, e alcuni anche sguaiatelli e volgarucci, con molta diffidenza di sè medesimo, le aveva poi deliberatamente elette siccome acconcie al suo disegno, quale gli si era venuto maturando nella mente. E questo era di far servire la Satira a qualche cosa di ben alto; ossia al fine nazionale, verso cui tutte convergevano, serrandosi sempre in più stretto fascio, le volontà e le intelligenze italiane; e di questo ufficio della Satira vera e propria privilegiare la così detta Poesia giocosa, «ripulendola» son sue parole «dalla vana chiacchiera, dalla disonestà, dalla inutilità, che l'hanno «deturpata anco nelle mani dei maestri». Su qualche tentativo da lui fatto di poesia politica nelle forme tradizionali di tanti canzoneggiatori mediocri, egli scrisse di sua mano senz'esitare: «prosa rimata».
La poesia d'intendimenti politici era in Italia rampollata naturalmente da quella d'intendimenti civili del Parini e dell'Alfieri; e più particolarmente il nome di questo, con gli ideali suoi di antiche virtù repubblicane e col disdegno di tutto quanto non fosse sinceramente italiano, era rimasto simbolo di quella italianità, le cui tradizioni, conservate e alimentate dalla letteratura lungo i secoli di servitù e decadenza, aspettavano, per fiorire e allignare in novello ordine di cose, occasioni propizie dalle esteriori vicende. Fra queste vicende si trabalzò, nei burrascosi anni di Rivoluzione e d'Impero, la musa banderuola del Monti, fantasia mirabile di poeta senz'anima di cittadino, canto di Virgilio senza cuore di Dante: – di mezzo a quelle vicende, mescolandovisi oratore e soldato, cattedratico e pubblicista, il Foscolo, ben altro intelletto, sentì che non era Italia in quelle «reggie adulate dove il ricco e il dotto e il patrizio vulgo si seppellivano»; e al risorgere di un «futuro popolo italiano», che l'Alfieri aveva vaticinato, preconizzò auspicii degni dai Sepolcri di Santa Croce: – e a questi sepolcri pure si volgeva, pallido della breve esistenza morbosa, il Leopardi, e vi salutava come altare di civil religione il cenotafio di Dante; e al valore italiano, prodigato in terra straniera per gli stranieri derubatori della nostra, evocava la trenodia di Simonide sui Trecento morti con Leonida per la patria. Erano le voci della grande arte antica, erano le virtù della civiltà grecolatina, che nella latina penisola si risvegliavano spontanee, prenunciatrici legittime della rivendicazione nazionale. Ma dalle memorie dei tempi venuti dopo la caduta di Roma pagana; dalle rovine dell'evo barbaro, di su le quali, all'ombra conserta del Papato e dell'Impero, il Comune era sorto e passato per dar luogo agli Stati; un'altra voce si levava, che inneggiato prima a Cristo liberatore dell'umanità, affigurava poi sotto più aspetti, e con le forme oggettive del dramma e del romanzo, nelle intrusioni sovrapposte di Longobardi e di Franchi, nelle guerre fratricide degli Stati indipendenti, nelle vergogne lacrimevoli dell'oppressione spagnuola, tutta la storia luttuosa delle servitù italiche; e in nome della cristiana civiltà affermava, nel cospetto delle altre nazioni, la esistenza d'una nazione italiana. Era la voce di Alessandro Manzoni, ed era la prigionia del Pellico, erano dall'esilio i canti del Berchet e del Rossetti, erano sulla scena classica o medievale le figurazioni storiche del Niccolini, e nel romanzo quelle del Guerrazzi e dell'Azeglio; che accompagnavano i moti del '21 e del '31, e mantenevano, invitto a tutte le repressioni violente, non mai sodisfatto sin che avesse trionfato, il sentimento della patria.
Di questo sentimento volle il Giusti essere l'interprete in quella forma di poesia, dove la servitù non pure aveva impedito le manifestazioni della verità nuda e cruda, ma aveva anzi favorito la sostituzione della burla, dell'equivoco, della dissimulazione, della bugia. Ed era complemento oggimai necessario, massime dopo i casi del '31 e l'avvento regio della borghesia in quella Francia ormai da più di quarant'anni teatro di tutto il mondo politico europeo, era, dico, necessario che la poesia nostra non solo derivasse dal passato le grandi ispirazioni e gli ammaestramenti, gli ammonimenti e i rimproveri, ma per entro al presente valesse e sapesse rimuginare il bene e il male della vita quotidiana, e in vive figure atteggiarlo: nè ciò poteva fare con efficacia, se non adattando a tale figurazione la veste dell'ironia, dello scherzo, dello scherno; nè questa veste poteva contessersi che di forme per eccellenza idiomatiche, cioè a dire toscane. Con tale concetto aveva il Leopardi data forma alla sua Batracomiomachia allegorica, ringiovanendo con felicità di grande artista il poemetto eroicomico; non però aspirando certamente con quello, in pieno secolo decimonono, a popolarità di lettori, di recitatori, d'imitatori. Con tale concetto Cesare Correnti, salutando anonimo l'anonimo Poeta toscano «delle vispe e mordenti caricature», dopo ricordato che «dalle sublimi imprecazioni dell'Alighieri alle calme e solenni proteste del Manzoni, la poesia non disertò mai la causa della patria e della sventura, non disperò mai della giustizia di Dio e dell'avvenire del Popolo», diceva che ben da Milano, quartier generale degli oppressori, eran venute le «melodie rossiniane» del Berchet, «ma dall'arguta Toscana, dalla patria del Berni e della commedia italiana, doveva venire il poeta popolare della satira e dello scherno».
Di quale satira e di quale scherno, e in quanto simile e in quanto no a quelli dei predecessori, il Giusti lo ha raccontato in quell'aneddotino tra carnevale e quaresima, che intitolò I brindisi. Dove egli, raccolti in brigata i tipi appunto della sua satira, fa prima brindisare l'abate volterriano nelle solite sestine da colascione, lardellate di equivoci tra il grasso e il magro, il sacro e il profano; e poi s'alza lui, e in strofette saffiche dove il quinario è come l'aculeo dell'ape che sfiora e della vespa che punge, dà l'aíre al «Brindisi per un desinare alla buona»:
A noi qui non annuvola il cervello
la bottiglia di Francia e la cucina,
lo stomaco ci appaga ogni cantina
ogni fornello.
Chi del natio terreno i doni sprezza
e il mento in forestieri unti s'imbroda,
la cara patria a non curar per moda
talor s'avvezza.
O nonni, del nipote alla memoria
fate che torni, quando mangia e beve,
che alle vostre quaresime si deve
l'itala gloria.
Tutto