La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II. Various
si vuole raggiungere lo scopo per le vie legali: dall'altra si vuole la lotta, la guerra; si aspira con voluttà al sangue.
Alle 10 del mattino tutta Milano era in moto; non v'era mente che stesse ferma, non cuore che non battesse più forte.
Il carattere violento trascina il carattere prudente. La folla irrompe nella bottega del Colombi, il primo armaiuolo di Milano, e la svaligia. Ne escono con pistole, con fucili da caccia, con carabine, con sciabole; con tutto ciò che può uccidere.
Ma le armi non bastano; si dirigono tutti al Borgo Monforte, dove è il Palazzo di Governo e il Torelli si unisce alla folla. Domanda che cosa si vuole e gli rispondono: Si fa una grande dimostrazione per appoggiare la domanda di concessioni che si vogliono dal Governo e quanto prima verrà il Municipio, verrà anche il Delegato (Prefetto) in persona.
Più in là il Torelli vede un giovane, che escito dalla bottega di un tappezziere, con un grosso ferro acuto e forte, tenta di smuovere il selciato per fare una barricata.
Ma gli gridano: No, no, a che pro vuoi rovinare la strada?
Ancora e sempre violenza e prudenza, che vogliono la stessa cosa, ma per diverse vie.
Intanto la folla si urta, si addensa, corre e divien fiume, corrente, che trascina ogni cosa che incontra.
Si ode gridare: Sono qui, sono qui!
È infatti la Deputazione solenne, che si avvia a chiedere al Governo le concessioni.
Avanza lentamente, solo gli uscieri e i pompieri possono difenderla dall'onda del popolo e permetterle di andare innanzi.
Guardate quei coraggiosi. Sono il delegato provinciale Antonio Bellati, il podestà conte Gabrio Casati, e intorno ad essi assessori, cittadini notevoli per censo e per fama.
Popolo e deputazione giungono al Palazzo, l'onda del popolo ne invade cortile, scale, e su su è entrata nelle sale, negli uffici, dovunque. Si ferma forse l'acqua torbida di un fiume, quando travolge alberi e armenti e case, ed uomini e cose?
Quelli che sono rimasti fuori si sentono cader sulle spalle registri, libri e per l'aria volano fogli, lettere.
Il Torelli, rimasto addietro, penetra più tardi nel palazzo, e sotto il portico vede da un materasso gettato a terra escire due paia di piedi calzati come sono i soldati ungheresi. Quei piedi sono immobili. Sono di due cadaveri, delle due sentinelle che erano alla porta del Palazzo e che, avendo voluto opporsi all'onda del popolo, erano state uccise, l'uno con un colpo di pistola, l'altro colla stessa baionetta di cui era armato il suo fucile.
Povere ed innocenti vittime del dovere professionale! Il libro degli Edda lo ha detto da tanti secoli. Nessuno è forte contro tutti. E quei poveri soldati giacciono lì sotto quel pietoso materasso che solo li nasconde alla curiosità del popolo tumultuante, e le loro povere madri pensano forse a loro in quella stessa ora nelle lontane steppe dell'Ungheria al dì del ritorno e che non verrà mai, mai più!
Quella folla, che si è già macchiata di sangue, non ha però tempo ne voglia di occuparsi di quei poveri morti. Tumultua, grida, schiamazza, mentre la Deputazione è in conferenza coll'O'Donnell.
Era le mille voci che riempiono il cortile, le scale, la via, si ode una voce più alta, che per un momento fa tacere le altre e ad esse si sovrappone: L'Arcivescovo, l'Arcivescovo! Largo all'Arcivescovo!
Era il Romilli, che l'anno prima, l'8 di settembre, aveva fatto il suo solenne ingresso in Milano e che succeduto al Gaisruck tedesco, era divenuto subito popolare, perchè italiano e buon uomo.
Il Romilli più che camminare era portato anch'egli su per lo scalone, mal difeso da alcuni sacerdoti, che lo difendevano dal troppo caldo entusiasmo dei suoi concittadini. Salutava a destra e a sinistra, sorrideva, ma era agitatissimo. Guardava con certo terrore una coccarda tricolore, che gli avevano appiccicata sulla veste talare.
Si conferiva intanto nel gabinetto del Governatore, e la folla febbricitante di impazienza alzava sempre più le note del suo patriottico entusiasmo. Ma ecco che si apre la porta del gabinetto e ne esce il conte Carlo Taverna, che dà la notizia delle prime concessioni.
Signori, il Governo ha fatto le concessioni…
E non si ode il seguito… Concessioni, sta bene, ma di che, ma di cosa? La impazienza cresce, diventa angosciosa e le grida crescendo impediscono di udire.
Un tale grida: Scriviamo la concessione e gettiamo il foglio nel cortile. Una penna, dei calamai, dei fogli!
Si trova dopo confuse ricerche un calamaio, ma senza penne e senza carta. La carta la troverò io, grida un impiegato e porta dei bollettini di leggi e circolari, che hanno sempre un foglio in bianco.
Si strappano le pagine bianche e senza penna vi si scrive con bastoncini, con matite; perfino colle dita tuffate nel calamaio.
E i fogli volan per l'aria e scendono dalle finestre nelle vie, dal corridoio e dalla scala nel cortile.
Si legge male ciò che peggio era scritto, ma tutti possono leggere però queste parole: Il Governo ha conceduto. E allora si ode da per tutto: Evviva la concessione, evviva il Municipio!
Le concessioni strappate a forza erano: Guardia nazionale – Libertà di stampa – Garanzia personale.
Miste agli evviva si udivano però altre grida: Vogliamo armi, vogliamo armi! Ma un altro grido più forte, più angoscioso vien su dalla piazza: I Tedeschi, i Tedeschi!
Il pànico invade la folla in gran parte inerme, e fugge, mentre la Deputazione esce dal Palazzo, portando seco come ostaggio o come prigioniero il vicepresidente O'Donnell, che messo nel palazzo del conte Carlo Taverna vi rimaneva tranquillo e indisturbato per tutte le cinque giornate.
Intanto, però, in varii punti della città eran corse schioppettate fra il popolo e la truppa, e in più luoghi si erano inalzate delle barricate.
I soldati avevan saputo dell'uccisione delle due sentinelle del Palazzo di Monforte e si vendicavano, dando la caccia ai cittadini. E questi tiravano sui soldati. Non si trattava più di Milanesi oppressi e di Austriaci oppressori. Era la vampa atavica dell'uomo selvaggio, che morsicato morde, che ferito ferisce. Due giovani fra gli altri, di condizione civile, inseguiti, fuggirono in una bottega di cartoleria, che era aperta, avendo la folla strappate le porte per farne una barricata. E i soldati dietro. I fuggenti corrono su per le scale, finchè trovano il tetto, e i soldati sempre dietro. Non si seppe mai, se scivolando dal pendio del tetto cadessero nella via o prima fossero stati uccisi e poi precipitati dall'alto. Il fatto si è, che i loro cadaveri, sfigurati, rimasero dov'eran caduti per più giorni, non riconosciuti, nè raccolti dalle turbe ebbre di lotta e che avevan altro da fare che di pensare a due poveri morti. Chi conta i cadaveri nell'ora della battaglia?
E la battaglia era ormai impegnata, nè consiglio di prudenti, nè pietà di filantropi poteva ormai arrestarla.
Nè solo i combattenti cadevano, ma anche i fuggiaschi, che per caso o per necessità si trovavano nelle vie. Il bravo Torelli, che armato di una sciabola e di due grossi pistoloni andava verso il Broletto, trova sul marciapiedi presso la via della Spiga un povero vecchio ucciso da una palla nel mezzo della fronte, e la pioggia lavava quella ferita e portava lungo il leggier pendio della strada un sottile rigagnolo di sangue. Il Torelli aiutato da alcuni cittadini portò quel povero vecchio sotto l'atrio d'una casa.
Ecco il principio della rivoluzione, ecco la prima delle cinque gloriose giornate, che scrissero una pagina d'eroismo nella storia d'Italia e diedero una lezione ai despoti; nè starò a descrivervi tutte le scaramuccie, tutti i particolari della lotta, che non aveva un solo generale, nè un solo piano di tattica, ma che si combatteva in tanti centri, quanti erano rappresentati dalle caserme, dal Comando di piazza, dalla polizia e con diversa fortuna, secondo i luoghi e gli uomini che combattevano.
Non accennerò che a qualche episodio. Mettendoli l'uno accanto all'altro, avrete il quadro della sommossa.
Corre la voce, che davanti al Gran Comando Generale posto in via di Brera, i soldati fraternizzano col popolo. Si spiega la cosa, aggiungendo che quei soldati son tutti ungheresi e italiani.