Galatea. Barrili Anton Giulio

Galatea - Barrili Anton Giulio


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appariva una bianca figura; la signorina Wilson, vestita alla Pamela, o giù di lì, colla sua gonna di mussolina bianca a fiorellini, un gran fisciù incrociato intorno alla vita, di mussolina, di tulle, o di garza, non so più bene, certo della medesima stoffa del cappellino, assai largo di giro, chiuso serrato sotto il mento, per modo da farle una candida aureola intorno alla faccia colorita.

      Ah, ecco l'inglesina! dirai tu, giungendo a questo punto del mio letterone. No, niente inglesina; il nome straniero è qui per trarti in inganno. Si chiamava Wilson il babbo di lei, ora morto, ma nato in Italia, dove i suoi erano venuti a stabilirsi per ragione di commercio; è italiana la mamma, fiorentina per la pelle. Aggiungi che la signorina non è bionda, anzi ha neri, ma proprio neri d'inchiostro, i capelli; che non è vaporosa di forme, nè altrimenti preraffaellesca, come pare si costumi laggiù. Di carnagione, per altro, doveva esser bianca; ma oramai, dal gran vivere che fa sempre all'aperto, è cotta bruciata dal sole. Mani e braccia sono egualmente abbronzite, non calzando mai guanti. L'ombrellino lo porta solamente, io credo, per darsi alle mosche. È, a dirti tutto in due parole, una mezza viragine. E lei e sua madre ho conosciute due settimane fa, con la Berti e con altre signore, tutte donne di sboccio; per istrada, si capisce, in un momento che non potevo più cansare l'incontro, ed ho barattate quattro parole di complimento, come s'usa in tutte le presentazioni. Non gridar dunque all'armi; niente inglesina, e la strada polverosa ha portato via tutti gl'ideali. A quest'età, poi, caro Filippo, vorrei vederlo io l'ideale che avesse il coraggio di farsi avanti!

      Ed anche oggi si barattarono quattro parole, mentre io, da buon cavaliere forzato, l'accompagnavo fino al principio del paese. Tanto, il mio sonno era rotto, e rotto l'incantesimo della mia pace nel verde. Quel che è peggio, e non potrò mai consolarmene, è violato il mio dolce segreto. Povera acqua ascosa, com'io volevo battezzarla! Ne verranno, delle brigate, ne verranno a far chiasso da queste parti, specie per il gran viale dei pioppi, che la signorina Wilson ha dichiarato un prodigio.

      Pazienza! cercherò dell'altro. E se non troverò dell'altro, me ne andrò. Il diavolo si porti le fanciulle girandolone, e i cani riconoscenti!

      IV

      Poscritto…. rimasto a casa

      15 luglio 18…

      Strano incontro e bizzarra conversazione, con questa signorina Wilson. Ben a ragione l'ho chiamata viragine. S'è fatta avanti arrossendo un poco, anzi diciamo pur molto, se molto ce ne voleva per trasparire dal bruno della carnagione, e ridendo in pari tempo, ridendo alto, più gradevolmente di Buci, che ha il riso muto.

      –Il signor Morelli!—diss'ella, inoltrandosi.—Capisco ora perchè Buci voleva venire quassù ad ogni costo. Ma che cosa faceva Lei qui? dormiva, accanto all'acqua? Narciso ci si sarebbe voluto specchiare.

      –Segno,—risposi io,—che non sono un Narciso.

      –O piuttosto,—ribattè la signorina Wilson,—questa non è acqua da affogarci.

      –Lo crede?—replicai.—Provando a tenerci dentro la testa….

      –Allora, capisco bene, anche un catino basterebbe. Che bell'acqua viva, del resto!—soggiunse ella, affacciandosi all'argine.—Vien voglia di ficcarci le mani.—

      E fece come diceva, affondando le mani, una dopo l'altra, e le braccia fino al gomito nell'onda cristallina, che fece intorno ad esse un lucido braccialetto d'argento. Io frattanto raccattavo il mio povero Orazio, che era scivolato sull'erba, e correva il rischio di prendere una bagnatura tanto molesta, quanto era piacevole alla signorina Wilson quella delle sue braccia indorate dal sole.

      –Ecco il compagno di solitudine;—diss'ella, ridendo ancora alla vista del libro che stavo allora per rimettermi in tasca.—Un romanzo!

      –Che! veda piuttosto.—

      Così dicendo le squadernai sotto gli occhi il volume, avendo essa le mani impacciate e non amando io che quelle mani, per quanto gentili, battezzassero il mio poeta, pagano nella vita e nell'arte; e già anglicano nell'edizione, se mai.

      –Sis licet felix ubicumque mavis,—lesse ella, accostando la sua faccia a quelle del libro,—et memor nostri, Galatea, vivas…. Che cos'è? latino? Capisco ora perchè si fosse addormentato il lettore.

      –Oh!—gridai.—Non faccia questo torto ad Orazio, nè a Galatea, il cui bel nome le è capitato sott'occhio. Mi ero addormentato qui, perchè avevo dormito poco stanotte.

      –Ha ballato?—mi chiese, ammiccando.

      –Io! Le pare?

      –Ah, sì, è vero; non son cose per Lei, che è… se lo lascia dire?

      –L'orso di Corsenna? Dica pure liberamente.

      –Come lo sa?

      –L'innocenza ha parlato, per bocca del figliuoletto dei Rossi. E sarà Lei, m'immagino, che ha inventato il soprannome.

      –Mi crede dunque molto cattiva?

      –No, ma poichè voleva dirmelo….—ripigliai.—Gli autori recitano così volentieri le cose loro!

      –Non sono stata io;—disse la signorina con accento più grave, che voleva acquistar fede alla sua asserzione.—Ma certamente mi pare che Le convenga. È proprio un orso, signor Morelli. Si fa la vita di campagna, vita allegra, di buona compagnia, e Lei se ne sta sempre da parte come un frate certosino. Si fanno corse di qua e di là, pranzi nei paesi e merende nei boschi, in dieci, in quindici, in venti persone, e Lei non si lascia vedere. Si balla qualche volta….

      –E l'orso, contro l'uso, non fa neppur questo;—interruppi io.—Che orso male addestrato, non è vero? Quanto alle passeggiate, vede bene, signorina, che ne faccio.

      –Ma da solo. L'ha mai veduto uno che si diverta da solo?

      –Potrei dirle di sì, se avessi l'uso di guardarmi allo specchio. Ma io sono anche un orso mal pettinato. Infine, vivo da solo, com'Ella dice.

      –E basta a sè stesso, non è così? Capisco infatti che tutto assorto nei suoi alti pensieri….

      –No, non dica questo, La prego. Io non mi basto; e i miei pensieri, se mai, radono piuttosto la terra.—

      Guardavo a terra, accompagnando col gesto la frase. E lì, a due passi da me, sporgeva il piedino della fanciulla; non un piede da viragine, in verità, e bisognava rendergli giustizia. Ella certamente si vergognò, perchè ritrasse il piede, dissimulando tuttavia l'atto sollecito con una carezza a Buci, che si era posto a sedere molto gravemente lì presso, quasi in mezzo a noi due. Dal canto mio, ero pentito già del mio atto, e tanto più facilmente, in quanto che era stato involontario.

      –Radono piuttosto la terra,—ripigliai, volendo mostrare che non facevo nessuna allusione di cattivo gusto,—perchè appunto la terra mi piace, così verde, così sana, così confortante allo spirito. Per amor della terra vengo in campagna. Lor signore, lo so, guardano più volentieri in aria; quando giuocano al lawn-tennis, per esempio.

      –Un bel giuoco; non Le piace?

      –Avrò il coraggio di confessarlo; niente affatto.

      –Pure, è ginnastica.

      –Per che farne?

      –Per rinvigorirsi. Alle battaglie della vita bisogna esser forti, respirar bene, muoversi bene….

      –Certo; per ballare, per andare nell'inverno a teatro.

      –Due cose che hanno la loro bellezza; non è anche Lei di questa opinione?

      –No, signorina.

      –Perchè?

      –Sono molti, i perchè; richiederebbero molto tempo; ed è forse ora per Lei di ritornare a casa.

      –Ecco, ci muoveremo, e Lei li potrà dir tutti passeggiando.

      –Non tutti, non tutti; sarebbero troppi. Ma uno basterà. Nelle conversazioni, nei ricevimenti, nei balli, nei teatri, in tutti i luoghi, insomma, dove le donne portano la loro grazia e la loro gioventù, c'è sempre una caterva di sciocchi. Sono essi il maggior numero, vorrà convenirne. Per costoro si avrà da perdere il tempo e l'arte? per costoro


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