Il ritratto del diavolo. Barrili Anton Giulio
sì, bella forza!—gridò il Chiacchiera.—Come se quella fosse arte! Il pittore s'ha a vederlo sulla tavola.
–O sul muro;—soggiunse Parri.—Spinello Spinelli può dirsi oramai un frescante. Mastro Jacopo gli ha dato a fare qualche cosa sulle sue ultime composizioni.
–Sì, gli ha dato da calcare i suoi cartoni sul muro e da mettere il colore sui fondi.
–Ahimè, dell'altro ancora, dell'altro;—entrò a dire Tuccio di Credi.
–Dell'altro? Che cosa?
–Gli ha dato da dipingere un'intera medaglia nel Duomo vecchio. Mi capite? un'intera medaglia. E Spinello ha ideata lui la composizione, ha fatto lui il cartone, tutto lui! Ma non potrebbe anche darsi che il maestro avesse ritoccato il disegno, data l'intonazione del bozzetto e via via?
–Non c'è dubbio;—esclamò il Chiacchiera.—E fors'anche avrà ideata la composizione.
–È possibile,—ripigliò Tuccio di Credi.—Tutto si può credere,-perchè il lavoro si fa in Duomo, sulle impalcature, dove il maestro non ha più voluto vedere nessuno di noi.
–Gatta ci cova!—sentenziò Cristofano Granacci.—Intanto eccolo pittore. E che lavoro è, quello che fa, il sornione?
–Un San Donato che ammazza il serpente con una benedizione;—rispose
Tuccio di Credi.
–Tu l'hai veduto?
–Io no, l'ho risaputo dallo scaccino della chiesa. Ma su questo non ho a dirvi di più;—soggiunse Tuccio, già quasi pentito di aver toccato quel tasto.
Ma gli altri non avevano bisogno di più estesi particolari, e non ci badarono neanco. Erano su tutte le furie, e non ci vedevano lume.
–Ah! è troppo!—gridò Lippo del Calzaiolo.—Mastro Jacopo ci ha i suoi beniamini. Se avesse adoperato egualmente con noi! Se ci avesse consigliati, aiutati, messi avanti, saremmo pittori anche noi. Bella forza! fare il lavoro d'uno scolaro e poi gabellarlo per pittore! E non si fa celia; pittore frescante! Purchè i massari del Duomo gli lascino passar la burletta!
–Che cosa ha da importarne ai massari?—disse Tuccio di Credi.—Se l'opera piacerà, non andranno a cercare cinque piedi al montone.
–E noi lasagnoni! Noi buoni a nulla!—gridò Cristofano Granacci.—Ah, caro e riverito mio mastro Jacopo di Casentino, dite che non son più io, se non vi pianto lì su' due piedi.
–O su quanti vorresti piantarlo?—domandò il Chiacchiera, che non rinunciava mai all'occasione di metter fuori una celia.
–Dico che me ne vado,—urlò il Granacci,—posso allogarmi a Firenze dal Giottino, o a Siena dal Berna, che tutt'e due mi vogliono.
–Per che fare?
–Quello che tu non farai, Tuccio, se pure tu campassi mill'anni:—ribattè il Granacci.
–Via, non ci guastiamo il sangue;—entrò a dire Lippo del Calzaiolo.—Cristofano ha ragione, ed io seguirò il suo esempio; me ne andrò a bottega da Agnolo Caddi, in Firenze. Tanto qui non s'impara nulla.
–È vero, questo;—notò il Chiacchiera.—Mastro Jacopo ha l'aria di tenerci per misericordia, come si tengono gl'infermi all'ospedale. Non c'è che Spinello, in Arezzo! E a lui concede anche la mano di sua figlia. Questa, poi, è grossa. Di che diamine s'è innamorato?
–Forse del ritratto che Spinello ha inteso di fare a madonna Fiordalisa:—osservò Lippo del Calzaiolo.
–Almeno sapesse farli i ritratti!—esclamò il Granacci.—I quattro segni d'un tocco in penna a me mi servono poco. In un'opera grande, voglio vederlo.
–Lo vedrete nel San Donato;—disse Parri della Quercia.
–Ma se non è suo!—rispose il Granacci.—Lo vogliamo giudicare da un'opera fatta da lui sotto i nostri occhi, non già in un affresco di mastro Jacopo, gabellato per suo.
–Chi dice che non sia suo?—chiese timidamente Parri della Quercia.
–Non hai inteso? Lo dice Tuccio di Credi.
–Adagio, Cristofano; io non ho detto nulla,—si affrettò a rispondere Tuccio di Credi.—Almeno non ho fatto che accennare un sospetto; anzi, la possibilità d'un sospetto. Ma se mi domandate che cosa ne penso, vi dirò che io non sospetto nulla, e credo che Spinelli darà tutta farina del suo sacco. È un gran pittore che nasce di schianto; nasca a sua posta, e facciamola finita. Parliamo d'altro; anzi, non parliamo di nulla. Poc'anzi volevate darmi un confortino, un lattovaro, un cordiale? Ho più fame che sete, e prenderei qualche cosa di sodo.—
IV
Le avete mai viste, le pecore matte, che Dante Allighieri, esule vagabondo, ha osservate tante volte e descritte nel poema sacro? Escono dal chiuso, ad una, a due, a tre, si seguono alla cieca e ciò che fa la prima fanno tutte le altre, anco se si tratti di andar sullo scrimolo d'un precipizio, a risico di fiaccarsi il collo tutte quante.
I garzoni di mastro Jacopo non potevano mandar giù la fortuna del nuovo venuto e meditavano una grande risoluzione. Escludo dal numero Parri della Quercia, che non partecipava alle loro malinconie per dolcezza di carattere, e Tuccio di Credi che aveva scagliato il sasso e nascondeva la mano.
Parri della Quercia, come vi ho già detto, era onesto e riconosceva l'ingegno di Spinello Spinelli. Ma egli era d'animo mite, e per conseguenza un po' timido. Il suo giudizio lo portava a vedere di primo acchito il bene ed il male; la sua indole lo faceva alieno da ogni resistenza e desideroso di tirarsi sempre in disparte. Egli era uno di quegli uomini che conoscono il mondo, o l'indovinano, e non vogliono prender gatte a pelare. Amava l'arte sua e l'esercitava con diligenza, che è come a dire senza ardore soverchio. Di certo, anche se fosse vissuto cent'anni prima, non sarebbe stato lui che avrebbe liberata la pittura dalle pastoie bisantine; ma si può ammettere che, vivendo a lungo, sarebbe giunto a dipingere le più aggraziate Madonne e i Cristi meno arcigni dello stampo antico. Nato nel secolo decimoquarto e fatto discepolo dei novatori, andava sulla falsariga dei Giotteschi, senza vedere più in là. E quale era l'artista, tale era l'uomo. Buono e cauto, giudizioso e misurato in ogni cosa sua, dissimulava con la dolcezza dei modi il vizio organico che doveva condurlo pochi anni dopo alla tomba. E voi potete intendere da questo come avvenisse che Parri della Quercia lasciasse correre le bizze dei compagni, senza riscaldarsi il sangue a metterli in pace.
Quanto a Tuccio di Credi, avete veduto come egli, dopo aver data la notizia e lasciato cadere il sospetto, si fosse affrettato a dire che la cosa non poteva esser vera, e che Spinello Spinelli era un ingegno nato di schianto, una nuova speranza dell'arte. Si era egli ricreduto, parlando? O seguiva in ciò il filo d'un riposto disegno?
Comunque fosse, Lippo del Calzaiolo, Cristofano Granacci e Angiolino Lorenzetti, detto il Chiacchiera, non avevano mestieri del suo aiuto per dar di fuori; erano giunti a tal segno, che le sue esortazioni pacifiche, se pure egli avesse creduto di farne, avrebbero sortito un effetto contrario.
–La vedete così?—aveva detto in fine Tuccio di Credi.—Accomodatevi. Io, poveretto, non ho come voi la fortuna di essere cercato altrove, e debbo contentarmi di questo pane. Quando si ha bisogno, conviene baciar basso.—
I tre arrabbiati avevano fatto consiglio. Non volevano saperne di restare a bottega di mastro Jacopo; sentivano la voglia matta di abbandonare una scuola in cui non s'imparava nulla, e si era costretti a vedere la fortuna degli altri. Il Chiacchiera ebbe il mandato di parlare per tutti.
La mattina vegnente, mastro Jacopo di Casentino, nell'escir di bottega per recarsi al Duomo vecchio, disse ai giovani, che stavano lavorando:
–Avete sentito? Ci ho allegrezze in famiglia, e voi siete invitati per domenica a mangiare il pan forte.—
Mastro Jacopo, a dirvela schietta, non ripeteva di buona voglia l'invito. Gli sapeva male che non ne avessero parlato essi per i primi, poichè Tuccio di Credi li aveva avvertiti d'ogni cosa; parendogli giustamente che un maestro, un principale, avesse diritto a quella piccola attenzione da parte loro.
I giovani stettero a sentirlo e si guardarono alla muta tra loro. Era venuto per Angiolino