E Non Vissero Felici E Contenti. Federica Cabras
altri erano fastidiosi per loro vitali. Di continuo la gente parlava di quanto fosse bello poter vivere su una barca nell’oceano – l’amica di Sandi, Olivia, sosteneva che era davvero “un sogno migliore di quelli che si tengono nel cassetto” – o nel deserto, meditando e camminando – Eddie stava male solo a pensarci: ripugnava sia il caldo che la sabbia, condizioni necessarie per quel tipo di vita.
Anche ora, in quel giorno così speciale, con meraviglia e stupore, si guardavano attorno. Mano nella mano, ogni tanto un sorriso li rendeva ancor più complici di prima. Quindici anni di matrimonio e doveva accadere questo perché uno dei due si accorgesse del bene che voleva all’altro.
«Sei felice, Sandi?» chiese, quasi timoroso, lui.
«Be’, se con felici intendi appagata, soddisfatta, finalmente equilibrata… sì. Se intendi felice felice non credo. Tutto finisce, niente è per sempre. E chi, più di noi, lo sa?»
«Non intendo dire che va tutto bene, sia chiaro. Ma va meglio. Alle volte l’unica cosa che si può fare per combattere il male di vivere è fare le cose a mille. Meglio un giorno da pecora…»
«Non starai nuovamente iniziando con quella tiritera di...»
«Non ci posso credere! Anche oggi! Fanculo, Sandi. Ti ho dato tutto e sono pronto; pronto per te, pronto per tutto. Ma non trattarmi con quel tono!»
«Quale tono? Sei un fottuto psicopatico!»
«Stronza maledetta, quel tono condiscendente che indica commiserazione.»
«Hai ragione, ti prego, scusami. Godiamocela, oggi. Minimo. Mea culpa. Meriterei una fustigazione pubblica…» aggiunse, mentre le labbra, increspate in un sorriso innocente e malizioso insieme, luccicavano nella luce di un lampione.
«Potrei persino farlo, ma ti amo.» disse mentre, con cura e lentezza, si avvicinava per poggiare le sue labbra su quelle di lei. La baciò come fosse la prima volta. Sentì un sapore fruttato – ciliegia, fragola? – e un tepore tanto familiare quanto soddisfacente.
«Può baciare la sposa.»
La folla esultò, e lui le scoprì il viso dal velo candido come la neve. Nello sguardo di lei c’era un tripudio di emozioni – amore, sì, ma anche emozione, voglia, appagamento, leggerezza e liberazione – e le sue mani tremavano, scosse da quell’attimo. Si asciugò con la manica dello smoking gli occhi bagnati dalla commozione, e la baciò. Un brivido corse freddo lungo la schiena.
«Perché tremi?» disse lei, preoccupata e confusa insieme.
«Ricordi, Sandi. Solo ricordi.»
«Ricordi? Ogni tanto vengono a trovarmi, ma li caccio la maggior parte delle volte. Prova anche tu.»
«Non ne sono capace, lo sai. La mia testa si perde. Avanti e indietro.»
«Sei matto.»
«Forse no o forse sì; comunque dubito fortemente sia dato da sapere a noi, oggi. E poi sto peggio del solito, sai? Mi è sempre accaduto di non poter controllare il flusso della mia mente ma tutto si è acutizzato, oggi. Non fanno altro che prendermi come fossi una bambola di pezza, e trascinarmi in un vortice di eventi, di date, di frasi e di odori.»
Il suo monologo pareva una confessione. Si tenne la testa fra le mani, poi si massaggiò brevemente le tempie, come se questo meccanismo potesse lenire la sofferenza di non sapere come le leggi del mondo possano rendere ogni uomo schiavo del proprio destino.
«Senti, io penso sia un dono. Cioè, tu ancora hai il modo di ricordare tutto… cioè, tutto tutto… mentre i miei ricordi spariscono, inghiottiti da un enorme buco nero. Nonostante voglia che certe cose siano fissate nella mia mente loro fuggono, si perdono.»
Lui sapeva di cosa parlava, ma non rispose. Non parlavano mai di quella sera, anche perché faceva male. Condividere un dolore fa sì che si mostri la fragilità, e tutto diviene meno facile quanto si mostra la propria debolezza, è risaputo.
Quegli occhioni spalancati, chiari, grigi. E quella pelle pallida e morbida. Nemmeno un dentino, ma la smorfia tradiva un sorriso.
«Che sogna, secondo te?» chiese, fremente di impazienza, lui.
«Ma, non so Eddie. Magari le mie tette.» sentenziò, con fare pensieroso.
«Proprio come suo padre, allora.» aggiunse lui.
«Il tuo sarcasmo è proprio di cattivo gusto…», lo rimproverò senza livore. Erano giovani, e da un mese, assaggiato il dolce sapore di essere genitori, toccavano il cielo con un dito. Si abbracciarono, felici. Poi guardarono la culla, verso quella nuova, preziosa vita e con un solo sguardo fu subito chiaro che la perfezione era stata giunta.
Un attacco d’ansia stava facendo capolino, ma non l’avrebbe fatta vincere. Provò, velocemente e in mezzo alla strada, una tecnica che aveva letto qualche giorno prima in un giornale. Tenendosi il ventre con la mano destra – o era la sinistra che avrebbe dovuto adoperare? Non ricordava affatto – con l’altra si tappò prima una narice e poi l’altra attendendo che i battiti del cuore tornassero normali.
«Che diamine stai facendo?» chiese lei, un sopracciglio alzato in segno di disorientamento.
«Cerco di calmarmi, cara.»
«E perché lo devi fare? Sei nervoso? Perché ne abbiamo parlato, e a lungo persino. Sei liberissimo di…»
«Sciocca!» urlò, poi si ricompose. «Dai, non fare così; è stato un momento di smarrimento. Nulla di che. Non devi essere sempre così insistente, e curiosa. Sono sicuro, anzi sicurissimo.»
«Bene, allora.»
Era soddisfatta. D’altronde aveva calmato le acque più lei con il suo modo fastidioso di sbottare che lui con quell’assurda e inutile tecnica. Lui, d’altro canto, si era dovuto calmare: lei era incredibilmente aggressiva, quando si arrabbiava. Lungi dal voler provocare un inferno aveva dovuto desistere dalla sua idea, volente o nolente. E forse era meglio così.
Erano oramai arrivati. Appena dentro un cameriere adolescente con i capelli sistemati alla bell’e meglio li condusse al tavolo che avevano prenotato.
«Un tavolo per due giusto? I signori Bellavista?» disse, in tono veloce e agitato. Era nuovo: aveva quell’atteggiamento di affettazione mista a insicurezza di quando si vorrebbe far colpo ma si è sicuri di non avere la sicurezza o le qualità necessarie. Comunque loro sorrisero, e lui rispose mettendo in bella vista i denti ricoperti di un brutto apparecchio metallico.
Li condusse a un tavolino di legno pregiato, dal design moderno. Linee morbide per un capolavoro color ciliegio; le gambe decorate a mano rendevano il clima antico ma non in modo obsoleto. Una tovaglia di raso bianco decorato con pizzi e fili dorati aggraziava ulteriormente l’atmosfera. Due candele rosse accese creavano l’atmosfera di cui avevano bisogno e per la quale, peraltro, Sandi si era tanto alterata al telefono durante l’ordinazione.
«Le ho detto che è un giorno importante, per me e per mio marito. Vogliamo qualcosa di unico, di speciale. Non so, qualcosa che faccia dire agli altri clienti, vedendoci: “Oh, che belli… chissà quali sogni d’amore si stanno raccontando!”. Capito?»
«Mi faccia capire, signora. Vuole avere un tavolo bellissimo, elegante, rivestito con stile e allestito a regola d’arte, per due, che faccia meravigliare gli altri clienti proprio stasera e che non sia nemmeno troppo dispendioso? Vuole anche qualcos’altro?» aggiunse, poi, esausto. Era abituato ai clienti e alle loro strambe, impossibili richieste. Dieci anni prima avrebbe senz’altro riagganciato il telefono, ora i tempi erano duri e si limitò solo a una lieve, impercettibile ironia. Sandi, dal canto suo, aveva capito il suo tono sarcastico, ma non le interessava: se lui avesse accettato, bene, nel caso contrario aveva altri dieci ristoranti da chiamare con le stesse surreali richieste.
«No, davvero. Nient’altro. Solo questo.»
«Ah menomale. Sarà fatto. Per stasera, giusto?»
«Sì, bene! A nome Bellavista.»
«Arrivederci!»