Arena Uno: Mercanti Di Schiavi . Морган Райс
da bambina, prima della guerra, quando il mondo era ancora normale. Papà, quando era a casa, ci portava qui nei fine settimana, per uscire un po’ dalla città. Non volevo apparire ingrata nei suoi confronti e mi facevo sempre vedere contenta, ma in realtà non mi è mai piaciuta; l’ho sempre vista scura e angusta, e faceva odore di muffa. Da bambina, ricordo che non riuscivo ad aspettare che finisse il weekend per allontanarmi da questo posto. Ricordo che giurai segretamente che quando sarei stata più grande, non sarei mai ritornata qua.
Adesso, ironia della sorte, sono grata per questo posto. Questa casa ha salvato la mia vita – e quella di Bree. Quando la guerra è scoppiata e siamo dovute fuggire dalla città, non avevamo opzioni. Se non era per questo posto, non so dove saremmo andate. E se questo posto non fosse stato così lontano ed elevato, allora saremmo probabilmente state catturate dai mercanti di schiavi tempo fa. È buffo come da bambini si possano odiare così tanto alcune cose che finisci con l’apprezzare da adulto. Beh, quasi adulta. A 17 anni mi considero un’adulta. E in tutti i casi, negli ultimi anni sono probabilmente cresciuta più che mai.
Se questa casa non fosse stata costruita proprio sulla strada, così esposta – se fosse giusto un po’ più piccola, più protetta, più addentro nel bosco, non credo che mi preoccuperei tanto. Certo, dovremmo comunque sopportare i muri sottili come carta, il tetto che perde e le finestre che lasciano entrare il vento. Non sarebbe mai una casa comoda, né calda. Ma almeno sarebbe sicura. Adesso, ogni volta che la vedo e guardo il panorama che c’è al di là, non posso fare a meno di pensare che è un bersaglio facile.
I piedi crepitano sulla neve, mentre mi avvicino alla porta vinilica, e sento un latrato provenire da dentro casa. È Sasha, e sta facendo ciò per cui l’ho addestrata: proteggere Bree. Le sono davvero grata. Sorveglia Bree con tanta cura, abbaia al minimo rumore; il che mi rende abbastanza tranquilla da lasciarla quando vado a caccia. Tuttavia allo stesso tempo, il suo abbaiare a volte mi fa anche temere che ci farà scoprire: dopotutto, un cane che abbaia di solito significa persone. E questo è esattamente ciò che cercherebbe di sentire un mercante di schiavi in ascolto.
Entro in casa e la zittisco rapidamente. Chiudo la porta dietro di me, sforzandomi di tenere i ceppi in equilibrio in una mano, ed entro nella stanza buia. Sasha si calma, scodinzola e mi salta addosso. Un labrador color cioccolato, di sei anni, Sasha è il cane più fedele che potrei mai immaginare – e la migliore compagnia. Se non era per lei, credo che Bree sarebbe caduta in depressione tanto tempo fa. E anch’io.
Sasha mi lecca la faccia, si lamenta e sembra anche più eccitata del solito; mi annusa il girovita, le tasche, percependo che ho portato a casa qualcosa di speciale. Poso i ceppi per coccolarla e nel farlo sento le sue costole. È troppo magra. Mi sento in colpa. D’altro canto, Bree e io siamo messe allo stesso modo. Dividiamo sempre con lei tutto ciò che ci procuriamo: noi tre siamo una squadra di uguali. Tuttavia, vorrei poterle dare di più.
Strofina il naso sul pesce, facendomelo volare via di mano e facendolo cadere sul pavimento. Sasha ci piomba immediatamente di sopra, e con gli artigli lo fa scivolare per il pavimento. Ci salta sopra di nuovo, stavolta mordendolo. Ma non deve piacerle il sapore del pesce crudo, e lo lascia andare. Piuttosto, ci gioca, saltandoci sopra ripetutamente mentre il pesce scivola sul pavimento.
“Sasha, smettila!”, dico piano, per non svegliare Bree. Ho anche paura che se ci gioca troppo, finisca con lo squarciarlo e sprecare parte della carne buona. Sasha ubbidisce e si ferma. Ma mi rendo conto di quanto è eccitata e voglio darle qualcosa. Infilo una mano in tasca, svito il coperchio di stagno del barattolo, prendo con il dito un po’ della marmellata di lamponi e gliel’avvicino.
Senza perdere un attimo mi lecca il dito, e mi ripulisce la mano con tre grandi leccate. Si pulisce il muso e torna a fissarmi con gli occhi spalancati, volendone già ancora.
Le accarezzo la testa, le do un bacio, e mi rimetto in piedi. A questo punto mi chiedo se sono stata premurosa a dargliene un po’ o crudele a dargliene così poco.
La casa è scura, e incespico, come sempre quando è notte. Difficilmente faccio un fuoco. Per quanto abbiamo bisogno del calore, non voglio rischiare di attrarre l’attenzione. Ma stasera è diverso: Bree deve guarire, sia fisicamente che mentalmente, e so che un fuoco è proprio quello che ci vuole. Mi sento più tranquilla nell’abbandonare ogni tipo di cautela, visto che domani ci sposteremo da qui.
Attraverso la stanza e raggiungo la credenza, estraggo un accendino e una candela. Una delle migliori cose di questo posto era la sua enorme riserva di candele, uno dei pochissimi effetti collaterali positivi di avere un papà marine, malato di tecniche di sopravvivenza. Quando venivamo da bambine, l’elettricità se ne andava a ogni tempesta, e di conseguenza aveva fatto riserve di candele, per averla vinta sulle intemperie. Mi ricordo che lo prendevo in giro per questo, che gli diedi dell’accumulatore quando scoprii il suo armadio pieno zeppo di candele. Ora che sono arrivata alle ultime, vorrei che ne avesse accumulate di più.
Ho tenuto in vita il nostro unico accendino usandolo con moderazione, e travasando un pochino di benzina dalla motocicletta ogni due, tre settimane. Ringrazio Dio ogni giorno per la moto di papà e sono anche grata per avergli fatto il pieno l’ultima volta: è l’unica cosa che abbiamo a farmi pensare di avere ancora un vantaggio, di avere qualcosa davvero di valore, una maniera di sopravvivere se le cose dovessero mettersi male. Papà ha sempre tenuto la moto nel piccolo garage attaccato a casa, ma all’inizio quando siamo arrivati, dopo la guerra, la prima cosa che ho fatto è stata prenderla e portarla su per la salita, nel bosco, e nasconderla sotto cespugli, rami e spine così fitti che nessuno avrebbe mai potuto trovarla. Ho pensato che se la nostra casa fosse mai stata scoperta, la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata controllare il garage.
Sono anche grata a mio papà per avermi insegnato a guidare quando ero giovane, nonostante le lamentele di mamma. È stata più difficile da imparare rispetto a molte moto, per via del sidecar attaccato. Ripenso a quando dodicenne, spaventata, imparavo a guidare mentre papà stava seduto nel sidecar, urlandomi comandi ogni volta che m’inceppavo. Ho imparato su queste ripide, implacabili strade di montagna e ricordo che sembrava di stare per morire. Ricordo che guardavo il bordo, vedevo il precipizio, e in lacrime, insistevo che guidasse lui. Ma si rifiutava. Rimaneva ostinatamente seduto lì per più di un’ora, fino a quando finalmente non smettevo di piangere e ci riprovavo. E in qualche modo, ho imparato a guidarla. In pratica è così che sono stata educata.
Non tocco la moto dal giorno in cui l’ho nascosta, e non voglio neanche arrischiarmi di salire a vederla se non quando devo travasare la benzina – e anche quello lo faccio solo di notte. Immagino che se mai un giorno fossimo nei guai e avessimo bisogno di andarcene via di qua velocemente, metterò Bree e Sasha nel sidecar e condurrò tutti verso la salvezza. Ma in realtà, non ho idea di dove potremmo andare. Da quello che ho visto e sentito, il resto del mondo è una zona devastata, piena di criminali violenti, bande, e qualche sopravvissuto. I pochi, violenti, che sono riusciti a sopravvivere, si sono radunati nelle città, rapendo e schiavizzando chiunque trovassero, per fini propri, o per rifornire i combattimenti mortali nelle arene. Scommetto che Bree e io siamo tra i pochissimi sopravvissuti che vivono ancora liberi, per contro proprio, fuori dalle città. E fra i pochissimi che non sono ancora morti di fame.
Accendo la candela e Sasha mi segue mentre attraverso lentamente la casa buia. Presumo che Bree stia dormendo e questo mi preoccupa: normalmente non dorme così tanto. Mi fermo davanti alla sua porta, e penso se è o no il caso di svegliarla. Mentre sto lì, alzo lo sguardo e vengo spaventata dalla mia stessa immagine riflessa nel piccolo specchio. Sembro molto più grande d’età, come accade ogni volta che mi guardo. La mia faccia, magra e asciutta, è arrossata dal freddo, i capelli castano chiaro mi cadono sulle spalle, incorniciandomi la faccia, e i miei occhi grigio ferro mi fissano come se appartenessero a qualcuno che non riconosco. Sono occhi intensi e severi. Papà diceva sempre che erano gli occhi di un lupo. Mamma diceva sempre che erano belli. Non sapevo a chi credere.
Distolgo subito lo sguardo, non mi va di stare a guardarmi. Stendo la mano e rigiro lo specchio, così non succederà più.
Lentamente apro la porta di Bree. Nell’istante in cui lo faccio, Sasha si lancia e corre dal lato di Bree, si sdraia e poggia il mento sul petto di Bree per leccarle la faccia. Non smetterò mai di stupirmi per quanto siano vicine loro due – a volte mi sembra