La Legge Delle Regine . Морган Райс

La Legge Delle Regine  - Морган Райс


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      La folla fece silenzio mentre Volusia saliva sul piedistallo alla base della sua statua e si voltava a guardare la sua gente. Dall’altra parte salì Koolian, un altro fidato consigliere, uno stregone di magia nera con indosso un mantello con cappuccio nero. Aveva occhi verdi e scintillanti e il volto pieno di verruche. Era la creatura che l’aveva aiutata e condotta all’assassinio di sua madre. Era stato lui, Koolian, ad avvisarla di costruire quella statua per sé.

      La gente la guardava più in silenzio possibile. Lei attese assaporando la tensione del momento.

      “Grande gente di Volusia!” disse con voce tonante. “Vi presento la statua della vostra nuova e più potente divinità!”

      Con un gesto plateale Volusia tirò il panno di seta e la folla sussultò.

      “La vostra nuova dea, la quindicesima dea, Volusia!” gridò Koolian.

      La gente sussurrò in contemplazione guardando la statua con meraviglia. Volusia rivolse uno sguardo alla statua d’oro scintillante, alta il doppio delle altre, che la rappresentava perfettamente. Attese nervosa per vedere come avrebbe reagito il suo popolo. Erano secoli che nessuno introduceva nuove divinità e lei era curiosa di vedere se il loro amore per lei era così forte quanto lei aveva bisogno che fosse. Non aveva solo bisogno che la amassero: voleva che la adorassero.

      Con sua grande soddisfazione la gente, tutta insieme, si inchinò all’unisono con il volto a terra, adorando l’idolo.

      “Volusia,” cantarono con voce pregna di sacralità, ripetendo più volte il suo nome. “Volusia, Volusia.”

      Volusia rimase lì in piedi con le braccia aperte in fuori, godendosi il momento. Era abbastanza da rendere soddisfatto qualsiasi essere umano. Qualsiasi capo. Qualsiasi dio.

      Ma non era ancora abbastanza per lei.

      *

      Volusia camminava attraverso l’ampio arco di ingresso al suo castello, passando tra colonne di marmo alte trenta metri e atri accerchiati da giardini e guardie, soldati dell’Impero che stavano sull’attenti con le loro lance dorate in mano. Se ne vedevano a perdita d’occhio. Camminava lentamente facendo risuonare i tacchi d’oro dei suoi stivali accompagnata da Koolian da una parte – il suo stregone – da Aksan dall’altra – il suo assassino – e da Soku, il comandante del suo esercito.

      “Mia signora, se posso fare solo una parola con voi,” le disse Saku. Era tutto il giorno che cercava di parlarle, ma lei lo aveva ignorato. Non era interessata nelle sue paure, nelle sue fissazioni sulla realtà. Lei aveva la sua realtà e si sarebbe rivolta a lui quando le sarebbe stato comodo.

      Volusia continuò a camminare fino a che raggiunse l’accesso a un altro corridoio, questa volta ricoperto da perle di smeraldo. Immediatamente accorsero dei soldati che aprirono i portoni per permetterle di passare.

      Quando fu all’interno i canti, le grida e i festeggiamenti delle cerimonie sacre che si stavano svolgendo all’esterno divennero più soffusi. Volusia aveva avuto una lunga giornata di uccisioni, bevute, violenze e festeggiamenti e ora voleva un po’ di tempo per sé. Si sarebbe ricaricata e poi sarebbe tornata alla carica.

      Entrò nella stanza solenne, buia e pesante, illuminata solo da poche torce. Ciò che illuminava di più la camera era la sfumatura di luce verde che scendeva dall’apertura in alto al centro del soffitto alto trenta metri, apertura che si trovava proprio sopra l’unico oggetto posizionato al centro della stanza.

      La lancia di smeraldo.

      Volusia vi si avvicinò in ammirazione. Era lì ormai da secoli e puntava dritta verso la luce. Con la sua asta di smeraldo e la punta pure di smeraldo, luccicava al sole, puntata verso il cielo come a sfidare gli dei. Era sempre stato un oggetto sacro per il suo popolo, un oggetto che si credeva sostenesse la città. Si fermò davanti ad essa ammirandola, osservando il vortice di particelle di luce verde attorno ad essa.

      “Mia signora,” disse Soku a voce bassa che riecheggiò comunque nel silenzio. “Posso parlare?”

      Volusia rimase ferma a lungo dandogli la schiena, esaminando la lancia e ammirando la maestria della sua fattura come aveva fatto ogni giorno della sua vita. Alla fine si sentì pronta per le parole del suo consigliere.

      “Puoi,” gli disse.

      “Mia signora,” disse. “Hai ucciso il comandante dell’Impero. Sicuramente la voce si è diffusa. Ci saranno eserciti in marcia verso Volusia già adesso. Eserciti enormi, talmente grossi da non poterci difendere contro di essi. Dobbiamo prepararci. Qual è la tua strategia?”

      “Strategia?” gli chiese Volusia senza ancora guardarlo, seccata.

      “Come pensi di concordare la pace?” insistette il generale. “Come intendi arrenderti?”

      Lei si voltò e lo guardò con freddezza negli occhi.

      “Non ci sarà nessuna pace,” gli disse. “Fino a che non li vedrò arrendersi e giurare la loro fedeltà a me.”

      Lui la guardò con la paura stampata in volto.

      “Ma mia signora, sono in sovrannumero rispetto a noi di almeno cento a uno,” disse. “Non abbiamo nessuna possibilità di difenderci contro di loro.”

      Lei si voltò nuovamente verso la lancia e lui fece un altro passo avanti, disperato.

      “Mia imperatrice,” insistette. “Hai ottenuto una vittoria considerevole nell’usurpare il trono di tua madre. Non era amata dal popolo, mentre tu lo sei. Ti adorano. Nessuno verrà mai a parlarti con franchezza. Ma io sì. Sei circondata da gente che ti dice ciò che vuoi sentirti dire. Hanno paura di te. Ma io ti dico la verità, la realtà della situazione. L’Impero ci circonderà. E noi verremo annientati. Non rimarrà nulla di noi e della nostra città. Devi agire. Devi concordare una tregua. Pagare il prezzo che vogliono prima che ci uccidano tutti.”

      Volusia sorrise continuando a guardare la lancia.

      “Sai cos’hanno detto di mia madre?” gli chiese.

      Soku rimase fermo a guardarla con occhi vuoti e scosse la testa.

      “Dicevano che era la prescelta. Dicevano che non sarebbe mai stata sconfitta. Dicevano che non sarebbe mai morta. Sai perché? Perché nessuno solleva questa lancia da sei secoli. E lei invece l’ha sollevata con una mano sola. E l’ha usata per uccidere suo padre e prendere il trono.”

      Volusia si girò verso di lui con gli occhi brillanti di storia e destino.

      “Dicevano che la lancia sarebbe stata sollevata solo una volta. Dal prescelto. Dicevano che mia madre sarebbe vissuta migliaia di secoli, che il trono di Volusia sarebbe stato suo per sempre. E sai cos’è successo? Io stessa ho preso la lancia e l’ho usata per uccidere mia madre.”

      Fece un respiro profondo.

      “Cosa ti dice questo, signor comandate?”

      Lui la guardò confuso e scosse la testa frastornato.

      “Possiamo vivere all’ombra delle leggende della gente,” disse Volusia, “o possiamo creare le nostre.”

      Si chinò verso di lui con sguardo torvo, guardandolo con furia.

      “Quando avrò annientato tutto l’Impero,” disse, “quando tutti nell’universo si saranno inginocchiati davanti a me, quando non sarà rimasta una sola persona in vita che non conosca e gridi il mio nome, allora capirai che sono l’unica e sola sovrana, e l’unica e sola dea. Il sono la prescelta. Perché l’ho scelto io stessa.”

      CAPITOLO DIECI

      Gwendolyn camminava attraverso il villaggio, accompagnata dai suoi fratelli Kendrick e Godfrey e da Sandara, Aberthol, Brandt e Atme oltre a centinaia di gente del suo popolo al seguito, tutti accolti in quel luogo. A capo del gruppo c’era Bokbu, il capo del villaggio, e Gwen gli stava accanto, colma di gratitudine mentre facevano il giro del villaggio. Il


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