La Fabbrica della Magia . Морган Райс
grama e altrimenti buia esistenza di Oliver. Se non l’avesse fatto, allora che senso aveva tutto il resto?
L’autobus sibilava e sobbalzava lungo la strada. Oliver guardava con malinconia le vie che passavano. C’erano bidoni dell’immondizia rovesciati ai lati, alcuni addirittura finiti in mezzo alla carreggiata, spinti dal vento. Le nuvole erano così scure da rendere il cielo quasi nero.
Le case iniziarono a farsi più rade, e il paesaggio che si vedeva dal finestrino si fece gradualmente più deserto e fatiscente. L’autobus si fermò lasciando uscire alcuni passeggeri, poi si fermò di nuovo, questa volta per salutare una madre stanca e il suo neonato piangente. Dopo diverse fermate, Oliver si rese conto di essere l’unica persona rimasta a bordo. Il silenzio era quasi inquietante.
Alla fine l’autobus passò una fermata con un segnale arrugginito e sbiadito. Oliver capì che si trattava della sua. Balzò in piedi e si portò davanti.
“Posso scendere, per favore?” chiese.
L’autista lo guardò con occhi tristi e pigri. “Suona il campanello.”
“Scusi, vuole…”
“Suona il campanello,” ripeté l’autista con voce monotona. “Se vuoi scendere dall’autobus, devi suonare il campanello.”
Oliver sospirò esasperato. Premette il pulsante e si voltò verso l’autista inarcando le sopracciglia con espressione di attesa. “Ora posso scendere?”
“Alla prossima fermata,” disse l’autista.
Oliver allora si infuriò. “Io volevo quella fermata!”
“Avresti dovuto suonare prima,” rispose l’autista con il suo biascicare lento e stanco.
Oliver strinse i pugni esasperato. Ma alla fine sentì che il bus iniziava a rallentare. Si fermò vicino a un segnale che era così vecchio che ne era rimasto solo un quadrato arrugginito. La porta si aprì lentamente cigolando.
“Grazie,” mormorò Oliver all’autista che non gli era stato per niente di aiuto.
Scese frettolosamente i gradini e si trovò sul marciapiede pieno di crepe. Guardò il segnale, ma era troppo arrugginito per potervi leggere qualcosa. Si potevano distinguere solo alcune lettere, digitate in quel vecchio font degli anni Quaranta che era così popolare durante la guerra.
Mentre l’autobus si allontanava liberando nell’aria una nuvola di fumi di scarico, il senso di solitudine di Oliver iniziò a farsi più intenso. Ma quando il fumo si disperse, davanti a lui comparve un edificio dall’aspetto molto familiare. Era la fabbrica del libro! La vera fabbrica di Armando Illstrom! L’avrebbe riconosciuta ovunque. La vecchia fermata dell’autobus doveva aver servito la fabbrica durante il suo periodo d’oro. La testardaggine dell’autista aveva effettivamente fatto a Oliver un grosso favore, facendolo scendere proprio nel punto dove voleva andare.
Solo che, a guardarla meglio, Oliver si rese conto che la fabbrica sembrava molto rovinata dal tempo. Il grande edificio rettangolare aveva diverse finestre rotte, e attraverso alcune di esse Oliver poteva vedere che l’interno era completamente nero. Era come se dentro non ci fosse assolutamente nessuno.
La paura si impossessò di lui. E se Armando era morto? Un inventore che lavorava durante la Seconda Guerra Mondiale doveva essere molto vecchio adesso, e le probabilità che fosse morto erano piuttosto elevate. Se il suo eroe era effettivamente morto, allora cos’altro ci poteva essere da desiderare nella vita per Oliver?
Un senso di desolazione lo travolse mentre andava verso il fatiscente magazzino. Più si avvicinava e meglio riusciva a vedere. Ogni finestra al pianoterra era sbarrata con assi di legno. Un’enorme porta d’acciaio si chiudeva su quella che dalla foto ricordava essere l’entrata principale. Come avrebbe potuto entrare?
Iniziò a girare attorno all’edificio da fuori, passando attraverso grovigli di ortiche ed edera che crescevano lungo il perimetro. Trovò una piccola apertura fra le tavole di una delle finestre sbarrate e sbirciò all’interno, ma era troppo buio per poter vedere qualcosa. Continuò a camminare, facendo l’intero giro della fabbrica.
Quando fu sul retro, Oliver trovò un’altra porta. Diversamente dalle altre, questa non era stata sbarrata. A dire il vero, era addirittura socchiusa.
Con il cuore in gola, Oliver spinse la porta. La sentì resistere contro la sua forza, ma poi emise il tipico sonoro cigolio del metallo arrugginito. Non era un buon segno, pensò Oliver, con i brividi per quel rumore così spiacevole. Se la porta fosse stata usata anche raramente, non avrebbe dovuto essere così bloccata per la ruggine, né produrre alcun suono.
Con la porta aperta quel che bastava perché lui potesse infilarcisi dentro, Oliver passò nell’angusto passaggio e si trovò all’interno della fabbrica. I suoi passi riecheggiarono mentre veniva proiettato in avanti di qualche metro per effetto della spinta che si era dato per entrare.
All’interno del magazzino era buio pesto e gli occhi di Oliver ci misero un poco ad adeguarsi all’improvviso cambio di luminosità. Praticamente accecato dall’oscurità, Oliver sentì il senso dell’olfatto che si acuiva, quasi a compensare la mancanza della vista. Divenne consapevole degli odori di polvere e metallo, oltre al caratteristico odore di un edificio abbandonato.
Aspettò con il fiato sospeso che gli occhi si abituassero finalmente alla poca luce. Ma quando lo fecero, la vista gli bastò appena per vedere a pochi metri dal proprio volto. Iniziò quindi a camminare con cautela per la fabbrica.
Sussultò di meraviglia quando si imbatté in un enorme apparecchio di legno e metallo, simile a un pentolone gigante. Ne toccò il fianco, e il contenitore iniziò a oscillare come un pendolo nel suo telaio di metallo. Ruotava anche su se stesso, e Oliver pensò che potesse avere a che fare con la mappatura del sistema solare e il movimento dei pianeti attorno, che ruotavano su diversi assi. Ma a cosa servisse realmente quel marchingegno, Oliver non ne aveva la più pallida idea.
Proseguì e trovò un altro oggetto dall’aspetto strano. Era costituito da una colonna di metallo, ma con una specie di braccio meccanico che sporgeva in alto e un artiglio a forma di mano alla base. Oliver provò la manovella e il braccio iniziò a muoversi.
Come in sala giochi, pensò Oliver.
Si muoveva come quei bracci motorizzati, con la mano che però non afferrava mai nessuno dei pupazzi contenuti nella vetrinetta. Questo era molto più grande, però, come se fosse stato progettato per sollevare ben più che semplici oggetti.
Oliver toccò ogni dito della mano ad artiglio. Avevano tutti lo stesso numero di giunture di una mano vera, e ogni parte si muoveva quando lui la spingeva. Oliver si chiese se Armando Illstrom avesse tentato di costruire un suo robot, ma decise che aveva più senso che fosse un suo tentativo di automa. Aveva letto tutto di loro: macchine a carica manuale in forma umana che potevano eseguire specifiche azioni pre-pianificate, come scrivere o digitare su una tastiera.
Oliver continuò a camminare. Tutt’attorno a lui c’erano fantastiche macchine, immobili e imponenti, come giganti resi immobili dal tempo. Erano fatti di una combinazione di materiali come legno e metallo, e consistevano in molte parti diverse, come ingranaggi e molle, leve e manovelle. Tra esse pendevano un sacco di ragnatele. Oliver provò alcune delle macchine, disturbando una varietà di insetti che avevano preso casa in varie fessure nascoste.
Il senso di meraviglia iniziò però a svanire quando Oliver ebbe il pensiero, accompagnato da un orribile senso di disperazione, che la fabbrica fosse effettivamente finita in disuso e abbandono. E non certo recentemente. Dovevano essere passati decenni, a giudicare dallo spessore della polvere e dai grovigli di ragnatele, da quanto i macchinari cigolavano e dal numero di insetti che vi avevano trovato alloggio.
Con una crescente sensazione di angoscia, Oliver visitò velocemente il resto della fabbrica, sbirciando con sempre minore speranza nelle stanze attigue e lungo gli oscuri corridoi. Non c’erano segni di vita.
Rimase fermo lì, nel magazzino vuoto e buio, circondato dai relitti di un uomo che ora sapeva che non avrebbe mai conosciuto. Aveva avuto bisogno di