Scala E Cristallo. Alessandra Grosso

Scala E Cristallo - Alessandra Grosso


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sempre provocato gli incubi,

      e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto

      comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo

      incubo a occhi aperti.

      Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi

      inseguiva, ma non era un bambino sorridente: aveva le unghie e

      i denti, zanne che potevano mordere e strappare. La piccola

      creatura poteva lacerarmi. Piangeva ma il suo pianto era quasi

      un raccapricciante latrato, e io ne ero terrorizzata, sudavo e

      tremavo. Ero sempre stata emotiva, infatti mi rappresentava

      bene la descrizione del feeler, in questo caso spaventato.

      I feeler sono emotivi ed empatici. Amano la vita

      tranquilla, i sorrisi e i bambini; affetti dai sensi di colpa,

      si ritirano a guscio dentro se stessi.

      Io non potevo ritirarmi dentro me stessa perché il bambino

      inferocito mi inseguiva e piangeva, urlava come l’ululare del

      vento.

      Avevo paura di affrontare la bestia e la mia innocenza che

      non avevo preservato. Non avevo salvato quello che avrei

      dovuto salvare e la mia coscienza mi perseguitava e mi

      inseguiva, e io non potevo fare niente se non scappare, ancora

      una volta.

      Non avrei avuto il cuore di prendere a pugni un bambino,

      così correvo, ma mi ritrovavo a correre con degli stivali dai

      tacchi scomodi. Questi mi provocavano un dolore sordo a ogni

      passo, mi laceravano tormentandomi la pelle e mi aprivano

      velocemente vesciche. Erano un tormento senza fine.

      Poi caddi sui gomiti e presi ad avanzare con ancor più

      fatica sul pavimento di legno marrone scuro, scivoloso e

      ostile, gelido come gli occhi del bambino che mi inseguiva.

      Sapevo di meritarmeli, quegli occhi, non avevo difeso

      abbastanza i bambini nella vita, non li avevo amati abbastanza

      e attraverso questo ennesimo mostro loro tornavano a farmi

      visita. Una visita amara ma costruttiva: dovevo pagare il

      prezzo dei miei errori ed ero pronta a riconoscerli.

      Dopo quell’inseguimento ci fu un’altra sconvolgente

      visione: una bambina che rimbalzava contro i muri e io non

      riuscivo a evitare che si facesse male. Era scivolosa, coperta

      di olio, e cambiava direzione. Era imprevedibile.

      Rappresentava esattamente la confusione che avevo dentro.

      Non sapevo se proteggere lei o salvare me stessa dal

      mostro che mi stava ancora inseguendo, il bambino che ululava

      chiedendomi perché, tentando di ghermirmi e chiamandomi MAMMA.

      Spaventosa parola per me che, sebbene ami i bambini, non

      ho mai considerato seriamente la possibilità di essere mamma e

      di costruirmi una famiglia. L’ho sempre vista come una cosa

      lontana nel futuro, lontana da me, limitante per la mia

      personalità e anche, odio doverlo ammettere, distruttiva per

      il corpo femminile così delicato. Teneri sono i bambini che

      hanno bisogno di cure, e ogni volta che vedevo le figlie delle

      mie amiche muovere i primi passi mi aggiravo pensierosa,

      temendo che la peste di turno rompesse qualcosa o si facesse

      male; poi ci sono bambini e bambini. Ci sono bambini che non

      nascono normali.

      Voglio dire, tutti abbiamo la nostra individualità, ma ci

      sono bambini che maltrattano gli animali e questo è un primo

      segno preoccupante. Molti serial killer da piccoli

      maltrattavano gli animali, ed era proprio il caso del bambino

      che mi rincorreva in quel posto sudicio, quella baracca

      legnosa piena di celle.

      Percepivo dalla sua violenza, dal modo con cui rompeva le

      cose, che non aveva ricevuto amore, ma sentivo anche che il

      seme del male era insito in lui: era stato abusato e ora si

      divertiva ad abusare. Era il male che si spargeva come una

      malattia che non lasciava scampo, che ti rincorreva e che

      avrebbe finito con il distruggerti lentamente soltanto

      toccandoti. Era angosciante e sempre presente. Non potevo

      continuare a scappare, dovevo reagire, tuttavia non sentivo

      ancora le gambe sufficientemente forti, anche se, prima o poi,

      una decisione doveva essere presa.

      La decisione era vitale, non potevo lasciare che il

      bambino mi distruggesse, ma dovevo anche fermare la bambina

      che continuava a scivolarmi e a rimbalzare contro i muri.

      Dovevo studiare un piano, una strategia per rendere

      innocuo il mostro e salvarla.

      Nel frattempo mi facevano anche male le spalle: era una

      mia tipica reazione allo stress.

      La tensione nervosa, per esempio, prima degli esami

      all’università, mi portava a contrarre i muscoli delle spalle

      con risultati pessimi per le scapole e per i muscoli

      cervicali.

      Tuttavia dovevo fare qualcosa, dovevo dannatamente fare

      qualcosa.

      Mi spostai, in modo che la bambina non sbattesse contro il

      muro ma contro di me; speravo che dopo un po’ di tempo con

      l’inerzia si sarebbe fermata. Le lacere corde che la

      brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non

      integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il

      temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di

      mano ed era molto viscida a causa dell’olio spesso e

      impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.

      Era scuro e quell’impresa mi causava fatica. Mi sentivo

      osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i

      brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in

      ogni mio singolo respiro… Il bambino era la mia coscienza e

      non mi dava pace.

      La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti

      fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.

      Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta

      la


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