Assassino Zero. Джек Марс
per lui e non voleva tornare alla fase depressiva che aveva vissuto per più di un anno.
“Agente Steele? Ci sei ancora?”
“Sì. Scusi”. Zero fece del suo meglio per mantenere la sua voce calma e uniforme mentre diceva: “Solo che… ho qualche problema a ricordare alcune cose”.
“Hmm”, disse Guyer pensieroso. “A breve o lungo termine?”
“Direi più a lungo termine”.
“E credi che questo possa essere… preoccupante?” Guyer stava scegliendo con cura le parole. Zero si chiese se il dottore stesse pensando la stessa cosa, che la loro chiamata potesse essere monitorata. Un dottore come Guyer avrebbe potuto trovarsi nei guai per ciò che aveva fatto, sicuramente avrebbe perso la sua licenza medica, o forse sarebbe stato addirittura arrestato e sarebbe finito in prigione.
“Direi che penso che dovrei programmare quel viaggio per vederla prima o poi”, gli disse Zero.
“Capisco”. Guyer rimase in silenzio, e quella pausa confermò a Zero il fatto che il dottore stesse attento come lui. “Beh, sei fortunato. Non dovrai venire da me; ho una conferenza la prossima settimana al Johns Hopkins a Baltimora. Posso vederti in quei giorni. Sono sicuro che uno dei miei colleghi mi permetterà di utilizzare una sua sala”.
“Perfetto”. Zero si sentì immediatamente sollevato. Era certo che il dottore sapesse cosa fare, o almeno fosse in grado di spiegare cosa gli stesse succedendo in testa. “Mi mandi i dettagli, ci vediamo lì”.
“Va bene. A presto, agente Steele”. Guyer riattaccò e Zero si sedette frustrato sul bordo del letto. Le sue mani tremavano ancora e il pavimento della sua camera da letto era pieno di ricordi.
Forse è stato solo un lapsus del momento, si disse. Forse quel sogno mi ha scosso ed è stata solo una breve dimenticanza. Forse sono andato nel panico per niente.
Ovviamente non credeva a nessuna delle bugie che si stava ripetendo.
Ma qualsiasi cosa stesse accadendo nella sua testa, la vita doveva continuare. Si costrinse ad alzarsi, a indossare un paio di jeans e una camicia. Rimise tutti gli oggetti nella cassetta di sicurezza, la chiuse a chiave e la spinse sotto il letto.
In bagno si lavò i denti e si spruzzò un po' d'acqua fredda sul viso prima di dirigersi verso la cucina, giusto in tempo per vedere Maya che chiudeva lo sportello del forno e impostava il timer digitale.
Zero la guardò stupito. “Che stai facendo?”
Lei si strinse nelle spalle e si scostò la frangia dalla fronte. “Ho messo il tacchino nel forno”.
Lui sbatté le palpebre. “Stai cucinando il tacchino? Ti insegnano anche questo a West Point?”
Maya sorrise. “No”. Poi sollevò il telefono. “Ma Google sì”.
“Beh, ottimo. Allora mi farò un caffè”. Fu di nuovo piacevolmente sorpreso di scoprire che aveva già preparato anche quello. Maya era sempre stata tanto indipendente quanto intelligente, ma gli sembrava quasi che stesse cercando di aiutarlo. Non poté fare a meno di chiedersi se si sentisse impotente in merito alla situazione di Sara tanto quanto lui; forse quello era un modo di dimostrargli il suo supporto.
Così decise di non intervenire e di lasciarle fare quello che voleva. Si sedette al bancone e mescolò il caffè, cercando di allontanare dalla mente l'episodio spiacevole del suo risveglio. Pochi minuti dopo Sara si avventurò in cucina, ancora in pigiama, con gli occhi parzialmente aperti e i capelli arruffati.
“Buongiorno”, disse Maya allegramente.
“Buona festa del Ringraziamento”, intervenne Zero.
“Mm”, borbottò Sara mentre si trascinava verso il caffè.
“Sei rimasta una persona non molto mattiniera, eh, topolina?” Maya la stuzzicò leggermente.
Sara bofonchiò qualcos'altro, ma lasciò trapelare il cenno di un sorriso sulle sue labbra al suono del suo soprannome d'infanzia. Sentì un calore dentro, e non era solo il caffè; era una sensazione che gli mancava da tempo, la sensazione di essere veramente a casa.
E poi squillò il telefono.
Maria lo stava chiamando; immediatamente fece una smorfia. Si era dimenticato di scriverle l'ora e l'indirizzo. Quindi fu preso nuovamente dal panico; non era da lui dimenticare qualcosa del genere. Era un altro sintomo dei suoi problemi di memoria? E se non l'avesse soltanto dimenticato, ma se fosse stato eliminato dai suoi pensieri, proprio come era successo con il nome di Kate?
Calmati, si disse. È solo un momento di distrazione, niente di più.
Fece un respiro e rispose al telefono. “Mi dispiace tanto”, disse immediatamente. “Avrei dovuto scriverti un messaggio, e mi è sfuggito di mente…”
“Non è per questo che chiamo, Kent”. Maria aveva un tono preoccupato. “E sono io a dovermi dispiacere. Ho bisogno che tu venga”.
Zero si fece cupo. Maya notò la sua espressione e si incupì a sua volta mentre Zero si alzava dallo sgabello e si allontanava dirigendosi in salotto. “Vuoi che io venga? Intendi dire a Langley?”
“Sì. Mi dispiace, so che il tempismo è pessimo, ma c'è un problema e ho bisogno di te in questo momento”.
“Io…”, Il suo primo istinto fu di rifiutare categoricamente. Non solo era un giorno di festa, stava ancora affrontando la guarigione di Sara, ma Maya era tornata per la prima volta dopo molto tempo. Considerando anche la perdita di memoria, Maria aveva ragione: il tempismo non poteva essere dei peggiori.
Quasi sbottò, “Devo proprio?” ma si trattenne per non sembrare petulante.
“Nemmeno io sono felice”, disse Maria prima che lui potesse pensare a un modo di rifiutare. “E non voglio certo far pesare il mio ruolo”. Zero capì perfettamente; Maria gli stava ricordando che adesso era il suo capo. “Ma non ho scelta. Non è stata una mia idea. Il presidente Rutledge ha chiesto di te”.
“Ha chiesto di me?” Ripeté Zero debolmente.
“Beh, ha chiesto dell'uomo che ha scoperto il caso Kozlovsky, c'è andato piuttosto vicino…”
“Forse parlava di Alan…”, suggerì Zero speranzoso.
Maria ridacchiò, ma sembrò un sospiro più che una vera e propria risata. “Mi dispiace, Kent”, disse per la terza volta. “Proverò ad essere breve, ma…”
Ma questo significa che verrò mandato sul campo. Il sottinteso era chiarissimo. E peggio ancora, non poteva in alcun modo rifiutare. Era sotto il controllo della CIA per quello che aveva fatto, ora più che mai e non poteva certo dire di no al presidente, che era a tutti gli effetti il capo del suo capo.
“Va bene”, cedette. “Dammi trenta minuti”. Terminò la chiamata e gemette piano.
“Va tutto bene”. Si voltò rapidamente e trovò Maya in piedi dietro di lui. L’appartamento non era abbastanza grande da consentirgli di avere una chiamata privata, ed era certo che lei potesse aver capito la natura della conversazione anche sentendo solo le sue parole. “Vai, fai quello che devi fare”.
“Quello che devo fare”, disse lui, “è stare qui con te e Sara. È il giorno del Ringraziamento, maledizione…”
“Sembra che non tutti se ne ricordino”. Stava facendo la stessa cosa che lui stesso era solito fare; tentare di alleggerire la situazione con un po' di umorismo. “Non preoccuparti. Sara e io ci occuperemo della cena. Torna quando puoi”.
Lui annuì, grato per la sua comprensione; voleva aggiungere altro, ma alla fine mormorò solo “grazie” e tornò in camera da letto per cambiarsi. Non c'era altro da dire, perché Maya sapeva bene che probabilmente la sua giornata si sarebbe evoluta su un aereo piuttosto che a una cena del Ringraziamento insieme alle sue figlie.
CAPITOLO SEI
Chiunque pensi all'America centrale, probabilmente potrebbe pensare a un paesaggio molto simile a quello di Springfield,