Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano. Guido Pagliarino

Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano - Guido Pagliarino


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aveva comandato d’avvolgere la salma nella sindone. Col carro i tre vivi e il morto avevano raggiunto il sepolcreto, che si trovava a un mezzo miglio da Perge: si trattava d’un canalone coperto di sassi, pruni e arbusti che passava, per la lunghezza d’un terzo di miglio e la larghezza media d’un centinaio di cubiti, fra due pareti rocciose butterate da piccole caverne a varie altezze; le tombe erano state ricavate, aggiungendo alla natura l’opera dell’uomo, sfruttando le grotte che sboccavano a livello del suolo. Dopo che il levita, in piedi accanto al carro, aveva recitato le ultime orazioni per il defunto, i necrofori avevano portato il corpo, con la sindone che l’avvolgeva, in una grotta ancora libera dove l’avevano deposto supino; quindi avevano chiuso l’antro con pietre raccolte sul luogo, a mo’ di mattoni naturali, legandole fra loro con calce; avevano lasciato un’apertura, grossolanamente quadrata, a livello terra con lato di poco più d’un cubito e mezzo, dalla quale, strisciando, si sarebbe potuto accedere all’interno; quindi avevano scavato sul terreno, accosto alla tomba, una guida lunga cinque cubiti e larga circa un palmo, l’avevano ricoperta con piccoli ciottoli piatti e vi avevano posto e ruotato, a chiusura dell’ingresso, una lapide cilindrica, appena più stretta del corridoio e di diametro un po’ maggiore della diagonale dell’apertura, ruota tombale che avevano preso in bottega tra altre preventivamente lavorate e dove, su quello che sarebbe stato il lato esterno, Barnaba aveva fatto incidere, sia in aramaico sia traslitterato in alfabeto greco, il nome dello zio.

      Il levita aveva dedicato i sette giorni seguenti a purificarsi dalla contaminazione del cadavere, secondo le norme mosaiche di purità contenute nel libro della Torah Bemidba: “…chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo per sette giorni. Quando uno si sarà purificato con quell'acqua il terzo e il settimo giorno, sarà mondo; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà mondo”2.

      Compiuto il rito, l’ottavo dì s’era imbarcato per Salamina con le sue sementi. A casa aveva scritto e affidato a un corriere una lettera per la moglie e il figlio di Gionata Paolo, con dettagliate notizie sulla tragedia. Non aveva chiesto loro il rimborso, al netto dei pochi spiccioli del defunto che aveva trattenuti, dei costi della sepoltura e del forzato soggiorno a Perge per altri sette giorni: a differenza dello zio, Barnaba considerava il denaro un mero strumento e non una gratificazione del Signore per i giusti; peraltro seguiva sì i 10 comandamenti di Mosè, il precetto della decima al tempio e le norme di purità ma, come moltissimi altri suoi correligionari, non scendeva a minute bigotterie nonostante, secondo i pignoli dottori della Legge, tutti d’origine farisaica, fossero da ritenersi giusti solo coloro che si sforzavano di rispettare, com’era stato per il padre di Marco, tutti i 613 precetti della Legge nessuno escluso, tra i quali figuravano addirittura obblighi come quello di recitare, ogni volta che ci si ritirava al gabinetto, questa preghiera di benedizione: “Sii tu benedetto, Signore nostro re dell’universo, che hai fatto l’uomo con sapienza e hai creato in lui molti fori e vani. È rivelato e si conosce dinanzi al Trono della tua Gloria che se uno di questi s’aprisse o uno di quelli si serrasse, sarebbe impossibile vivere e rimanere davanti a te. Benedetto sei tu Signore, che curi ogni corpo e agisci magnificamente”3.

      Ben si comprende quanto il lutto avesse gettato nell’afflizione il giovane Marco e sua madre. La vedova Maria, quando finalmente s’era data pace, aveva venduto per conto del figlio, unico erede di Gionata Paolo, il bazar di tappeti, causa indiretta della morte del diletto marito e padre, e aveva investito il ricavato in un bell’appezzamento di terreno in aggiunta a quelli già posseduti: aveva ragionato che, così, Marco non avrebbe dovuto fare viaggi lunghi e pericolosi per acquistare merce; aveva inoltre vietato al figliolo d’andare a Perge a visitare la tomba paterna, perché “di morti in casa, ne basta e avanza già uno” e, peggio ancora, d’andarvi a cercare gli assassini, come lui avrebbe voluto: “Un’idea”, l’aveva rimproverato con fermissimo tono, “del tutto assurda, che poteva venire in mente solo a un bambino come te”.

       (Indice)

      Erano passati due anni dall’omicidio ed era il venerdì 6 aprile della settimana di Pasqua dell’anno di Roma 783.4 Era tramontato da poco il sole del giovedì e, col primo buio, era iniziato il giorno pasquale sia per il popolo sia per la chiusa setta degli esseni che computavano la data di Pasqua seguendo il calendario solare; invece per le sette dei sadducei e dei farisei il gran giorno sarebbe stato solo l’indomani, ché stabilivano la solenne ricorrenza secondo il calendario lunare, onde per loro il 6 aprile di quell’anno era solo la parasceve, cioè il giorno dei preparativi. 5

      Un rabbì originario di Nazareth di Galilea e dodici suoi seguaci s’erano riuniti al primo piano della dimora amica di Marco e di sua madre, per celebrare la cena pasquale entro la città santa di Gerusalemme com’era prescritto a tutti gli ebrei quando possibile. L’agnello tradizionale di Pasqua che sarebbe stato consumato dai tredici al culmine del solenne convivio era stato comprato dal discepolo del rabbì e tesoriere del gruppo Giuda Bar Simone detto l’Iscariota6 e presentato al tempio dov’era stato ritualmente scannato da un ministro del culto.

      La vedova di Gionata Paolo aveva conosciuto il maestro nazareno nella prossima Betania in casa delle amiche Marta e Maria e del loro fratello Lazzaro, e affascinata dal carisma dell’uomo ne era divenuta spiritualmente seguace. Per simpatia, gli aveva concesso il proprio cenacolo perché potesse celebrare coi suoi la cena pasquale nella città, al riparo da occhi nemici; la sua vita era infatti minacciata dai membri del consiglio supremo giudaico di Gerusalemme, il sinedrio, in cui sedevano sacerdoti, scribi e certi anziani della comunità, ricchi potenti che tramavano per arrestarlo al più presto e consegnarlo al tribunale romano con un’accusa passibile di morte, poiché li aveva pubblicamente criticati e ingiuriati sulla piazza antistante il tempio. Per quei potenti non si trattava solo di vendetta, essi lo temevano perché in suoi insegnamenti erano una minaccia continua per loro; egli insegnava infatti, senza mezze parole, che in ogni tempo i capi delle collettività non devono esigere d’esser lodati e serviti ma, al contrario, devono essere a disposizione del popolo; e affermava che l’Eterno aveva stabilito che purità e impurità d’un essere umano non stanno nell’adempiere o no i precetti formali della Legge, non nel commissionare per adorazione sacrifici d’animali7 e offerte di primizie e nello svolgere i rituali inventati da sacerdoti e dottori della Legge per averne prestigio e guadagno, ma nelle scelte d’amore o di odio per il prossimo. Se questi insegnamenti avevano allarmato assai i capi d’Israele, avevano all'inverso entusiasmato molti come la Maria la vedova.

      Il giovane Marco non era fra i seguaci del rabbì, ma essendo ufficialmente il padrone di casa e religiosamente maggiorenne da un biennio,8 avrebbe avuto il diritto di stendersi al posto d’onore sulle stuoie della mensa pasquale assieme agli invitati. Se n’era tuttavia astenuto perché, seguendo gli usi farisaici paterni, egli con la madre e i servi avrebbe festeggiato la Pasqua la sera seguente, e difatti un altro agnello era stato immolato per loro nel tempio. Dunque i tredici erano stati lasciati soli nel cenacolo, completamente liberi di celebrare la festa fra di loro.

      Inaspettatamente, a un certo punto della serata uno del gruppo, quel Giuda che aveva provveduto all’agnello, era sceso spedito al pian terreno con una brutta smorfia sul volto, le guance porporine, e aveva infilato la porta di casa senza nemmeno salutare Marco, ch’era nell’atrio. Il giovane s’era chiesto se quell’uomo avesse ricevuto un improvviso, urgente incarico dal maestro, al suo carattere piaceva infatti moltissimo indagare su fatti in ombra; ovviamente avrebbe voluto, prima di tutto, scoprire e far arrestare gli assassini del padre, ma ormai lo riteneva irrealistico: mancava qualche anno ancora allo straordinario sogno che l’avrebbe spinto a investigare. Non vedendo più tornare Giuda, la curiosità del ragazzo s’era accresciuta. Quando il gruppo del nazareno aveva lasciato la casa dietro al maestro per recarsi a dormire, su concessione di Maria, nel capanno dell’uliveto detto Getzemani che Marco aveva ereditato, il giovanissimo proprietario


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