L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi

L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi


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uguagli in miseria. Almeno Niobe fu convertita in pietra e cessò a un punto le lacrime e la vita: ella poi deve durare lungamente in tale uno stato che non può dirsi vita e non è morte, — a piangere la sua ultima lacrima, a bevere l'ultima stilla di un calice senza fine amaro. Costei delirava d'amore per Filippo, e Filippo la fuggiva, ed in breve consunto da amplessi che non erano suoi, sul primo fiore di giovinezza le morì tra le braccia. Le tolse la mente l'angoscia: stette muta, ordinò prima si seppellisse il cadavere; poi, cambiato consiglio, volle si imbalsamasse; lo vestì di abiti magnifici, lo stese sopra un letto di broccato, e quindi si pose ad aspettare che si svegliasse, imperciocchè aveva sentito dire di un re il quale era resuscitato dopo quattordici anni dalla sua morte; preso da geloso furore, non consentiva che donna alcuna si accostasse a quel letto; se ministro o consigliero andava per consultarla, il dito gli ponendo sui labbri, bisbigliava sommessa: «Aspettate che il mio signore si svegli.[61]»

      Tale fu la madre di Carlo, e tale fu egli stesso quando, dalle infermità domato e dagli anni, mutò la porpora imperiale in cocolla da frate, e rotta la corona sopra la soglia di un convento, dei bricioli se ne fece un rosario per contarvi sopra i paternostri e le avemarie. Dopo tanto sorso bevuto alla coppa del potere, la gettò via lontana da sè, quasi lo avesse inebbriato di fiele. Miserabile! Chè quando a Laredo in Biscaglia baciò la terra dicendo: «O madre comune degli uomini, nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo ritornerò nel tuo[62]», cotesto grido non mosse mica da anima fortemente contristata, bensì fu lamento neghittoso di pellegrino il quale si lascia cadere sull'argine della via e quivi aspetta piangendo la morte. Nè quando volle innalzarsi il feretro e assistere vivo alle sue esequie[63], lo vinse ira o disprezzo o fastidio degli uomini, come Silla e Diocleziano, sibbene la paura dell'inferno. Prima che lo cancellasse la morte dal libro dei viventi, il demonio dello scherno aveva spento con un soffio la fiamma di cotesto spirito superbo, e sopra la fronte nuda di capelli, di corona e di pensiero, ridendo scriveva: «Qui dentro giace sepolto l'intelletto di Carlo V imperatore!»

      Però da questo tempo a quello in cui si era ristretto a parlamento con Clemente VII ci correranno trent'anni: adesso egli gode meditando che ne' suoi regni non tramonta mai il sole: — anela portare il mondo sul pugno come dal paggio si costuma il falcone; due soli potenti intende che abbiano a temere i mortali nel creato! lui in terra, Dio nel cielo.

      Clemente papa, scuoti la polvere del tuo sepolcro, rompi la lapide e mòstrati qual eri allora e quali disegni concepivi: mòstrati insomma quale apparrai nella valle di Giosafatte. Ricusi forse svegliarti dal tuo sonno di marmo? Dirai che al cospetto dell'Eterno soltanto vuoi comparire il giorno del giudizio? Esci: la storia apparecchia il giudizio di Dio e rimuove dalle tombe degl'iniqui la mala erba dell'oblio, onde vi cada intera la maledizione delle schiatte succedentisi nei secoli. Vorrai forse minacciare me de' tuoi fulmini? Ben altri fulmini che non furono i tuoi stanno spenti a Sant'Elena. I nostri pargoli adesso getterebbero via le tue scomuniche come trastulli vieti, — i giullari non vorrebbero rammentarle neanche come facezie. — O san Pietro glorioso, sarebbe il mondo diventato tutto luterano? Mi pare che strilli dal fondo del suo avello cotesto snaturato figliuolo di Firenze. — No, no, confórtati, papa Clemente; te, Lutero, Calvino, quanti vi hanno preceduto, quanti vi hanno seguito, mitre, corone, porpore, cappucci, Numa, le leggi delle XII tavole, sant'Ignazio da Loiola, Leopoldo I, san Domenico, e tutto quello che fu, il Destino ripose dentro immanissima urna, e l'agita, l'agita, finchè la sorte o la ragione non venga ad estrarne l'arcano della umana felicità. — Esci dunque, Clemente. Ecco, secondo il costume dei papi e dei re, tu vesti un manto vermiglio. A quanti oppressori vissero di sangue talentò mai sempre il colore rosso, — certo perchè non vi si distinguesse sopra quel sangue! O sciagurati! Dio discerne il sangue del popolo dal sangue della porpora. La tua barba diventò bianca per gli anni, il tuo volto rugoso, le pupille ti tremano sotto le ciglia come alla lepre, il corpo hai irrequieto, ogni rumore ti mette spavento. Nessuno ti sta alle spalle; chiudesti di tua mano le porte, e non pertanto ti volgi improvviso dubitando che sopraggiunga Alarcone[64], il quale, prigioniero fuggitivo, ti riconduca in castello Santo Angiolo; o il più fiero Giorgio Frandesperg, che adempiendo al suo giuramento ti getti al collo il capestro d'oro[65]. La fama di prudente, conseguìta in tanti anni di ministro di Leone X, ti sei divorato in un giorno di papa[66]; su la cima delle umane grandezze la vertigine ti ha preso; la tua mente è sabbia dove il pensiero fabbrica, la paura rovina. Tu giaci sull'orlo dell'avello, ma i tuoi concetti non appartengono alla pace eterna; se innalzi un braccio, lo fai per percuotere; se stendi una mano, lo fai per rapire. Nel naufragio del tuo pensiero rimase a galla solo un'idea, e tu la vieni afferrata come la tavola di salute. — Tu ami il tuo bastardo, e tu pure, Clemente, sei tale[67]: papa Lione ti concesse la dispensa, sicchè tu potesti arrampicarti per tutta la scala della gerarchia ecclesiastica; però in faccia al mondo non v'ha cosa che valga a salvarti dall'onta degl'illegittimi natali; — il tuo bastardo è camuso, ha i capelli crespi, le labbra tumide, brutto di corpo, di anima più brutto.... Beatissimo Padre, ti saresti per avventura mescolato in amore con una schiava africana[68]? Ah! quantunque illegittimo figlio di Giuliano dei Medici, io mi aspettava da te gusto migliore pel bello; — pure sei padre e lo ami. Dura condizione dei potenti, che, buoni sieno o tristi i loro affetti, tornino del pari perversi ai propri simili! Stravolto adesso da cotesto amore, che cosa gl'importa il giusto e l'onesto? Ad ogni costo egli vuole deporre una corona su quel capo di moro. Se lo poteva, avrebbe lui convertito la tiara di pontefice in diadema da re; non riuscendogli, si volse altrove a lacerare il manto d'Italia per girargliene un brano sopra la spalle; gli si offerse la patria libera, bella e innocente, o se pure delitto alcuno era in lei, colpevole di avergli dato la vita. — Non importa: quand'anche del metallo della croce che soprasta la cupola del duomo di Firenze, quando anche dei merli del Palazzo Vecchio, — quando delle ossa de' suoi concittadini dovesse formargli la corona, basta ch'ei sia coronato! Fra brevi anni di lui rimarrà un pugno di polvere; — i presenti lo malediranno e i futuri; — che importa? Lo esecrino, purchè lo temano; diventi polvere, perchè coronata.

      «Gloria in excelsis Deo, et in terra pax!» riprese Carlo V, come continuando un discorso interrotto, e si alzò accostandosi al fuoco. «La pace è fatta. Vi pare egli che quanto promisi all'arcivescovo di Capua in Barcellona vi confermi adesso, Beatissimo Padre? Sebbene nella impresa di vostra casa occorrano i gigli di Francia[69], i Medici domineranno Fiorenza.»

      «Ma fin qui io non veggo....», interruppe il pontefice, e poi si rimase esitante a librare se il concetto che stava per esprimere potesse riuscire di troppo sgradito all'imperatore; — pure essendogli forza aprire manifestamente l'animo suo, con voce un poco più dimessa soggiunse: «Ma fin qui io non veggo che promesse di promesse, mentre per me si devono di presente adempiere le condizioni del trattato.»

      «L'esperienza lunga che avete, Beatissimo Padre, degli umani negozii vi farà di leggieri comprendere non derivare da mala volontà l'inadempimento momentaneo delle mie promesse; ciò avviene perchè di natura loro riguardano a tempo successivo. Onde preporre la vostra famiglia alla suprema autorità di Fiorenza, bisogna adoperarvi le armi; onde restituire alla Chiesa Ravenna, Ferrara e gli altri Stati perduti, bisogna ancora adoperarvi le armi; perchè il ducato di Milano prenda il sale dai vostri dominii, fa di mestieri che il tempo gliene apparecchi la necessità.»

      «Sì, ma finalmente le guarentigie non guastano nulla.... e l'arcivescovo di Capua ve ne dovrebbe avere toccato a Barcellona...., e la Maestà Vostra dava il suo imperiale consenso....»

       «Non basta forse a papa Clemente la promessa di Carlo imperatore?»

      «Promesse! trattati!» replicò il pontefice con maggiore stizza di quello di cui altri lo avrebbe creduto capace e che non avrebbe voluto egli stesso, alzandosi in piedi; ed accennando sdegnoso varie carte spiegate sopra la tavola. «Ecco, nel 1525, prima della battaglia di Pavia, mi dichiarai neutrale tra la Maestà Vostra e il Cristianissimo; padre comune dei fedeli, mi parea, ed era il partito da praticarsi migliore tra due principi cristiani dei quali non mi era riuscito prevenire le sanguinose contese; la battaglia avvenuta, Lanoia vostro stipula meco questo trattato di pace, riceve centocinquantamila fiorini d'oro, — e la Maestà Vostra nè ratifica il trattato nè restituisce il danaro; nel 27, Lanoia vostro mi sottoscrive quest'altro trattato, col quale si obbliga allontanare il contestabile di Borbone da Roma quando io gli paghi ottantamila fiorini; — ritirato il danaro, il Borbone non pure si accosta a Roma, ma con barbarie inaudita la manda


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