L'umorismo. Luigi Pirandello

L'umorismo - Luigi Pirandello


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poco in qua alla gioja e al dolore, hanno assunto aspetti così incerti e così trascolorati che non si possono più, nonchè separare, nemmeno distinguere. Ne è venuto che i miei contemporanei non sanno ora più essere nè ben contenti, nè bene malcontenti mai, e che voi solo non bastate più nè a far fermentare il misurato sollazzo dei primi e nè a divergere le sofistiche tremerelle dei secondi. Ci voglio io, che mescolo tutto scientemente, per fare svanire da una parte quanto più posso ingannevoli miraggi e per limare dall'altra quante più trovo superflue asperità. Vivo di espedienti e di cuscinetti, io...

      — Bella vita! — esclama il vecchio.

      E l'ometto smilzo sèguita:

      — ... per arrivare possibilmente ad uno stato intermedio che rappresenti come la sostanza grigia dell'umana sensibilità. Si sente troppo adesso, come troppo s'è riso a ufo ed a credenza in altri tempi: urge però che il pensiero regga le briglie alla più incomposta manifestazione del sentimento... Rimpiango sempre di non aver potuto ereditare le vostre illusioni, e mi rallegro nello stesso tempo di trovarmi di qua dal fosso, bene agguerrito contro alle insidie delle illusioni stesse! O che avete? Perchè mi affisate a codesto modo?

      — Penso, — risponde il vecchio, — che se vuoi proprio aver due anime in una, fai molto bene a non assumere la famosa guardatura di quel vedovo innamorato, che a sinistra piangeva la morta e a destra faceva l'occhietto alla viva. Tu invece vuoi piangere e far l'occhietto insieme, da tutte due le parti, come dire che non ci si capisce più nulla».

      Come nel dramma romantico che i due bravi borghesi Dupuis e Cotonet vedevano: «vêtu de blanc et de noir, riant d'un oeil et pleurant de l'autre».

      Ma abbiamo confusione anche qui. In fondo, il Cantoni viene a dire sott'altra forma quello stesso che avevano detto il Richter e il Leopardi. Se non che, egli chiama anche humour quello che gli altri due avevano chiamato comico classico e ridicolo antico. Il Richter — tedesco — tesse però l'elogio del comico romantico o humour moderno, e vitupera come grossolano e volgare il comico classico; mentre il Cantoni, come il Leopardi — da buon italiano — lo difende, pur riconoscendo che la taccia di vergognosa sensualità non sia affatto immeritata. Ma anche per lui l'humour moderno non è altro che una sofisticazione dell'antico. «Via, ho idea, — gli dice infatti l'Humour classico, — che si sia fatto sempre senza di te, ovvero che tu non sia altro che la parte peggiore di me medesimo, la quale abbia messo cresta per impertinenza, come ora usa. È un gran dire però che non s'abbia mai a conoscersi bene da sè soli! Tu mi sei certo scivolato di sotto ed io non me ne sono avvisto».

      Ora, è vero questo? Ciò che il Cantoni chiama Humour classico è proprio humour? o non incorre il Cantoni per un verso nello stesso errore in cui incorse già per l'altro il Leopardi, confondendo cioè con l'esprit francese tutto il ridicolo moderno? Più propriamente: ciò che il Cantoni chiama humour classico, non sarebbe l'umorismo inteso in un senso molto più largo, nel quale sian comprese la burla, la baja, la facezia, tutto il comico in somma nelle sue varie espressioni?

      Qui è il nodo vero della questione.

      Non c'entra la diversità dell'arte antica dalla moderna, come non c'entrano le speciali prerogative di questa o di quella razza. Si tratta di vedere in che senso si debba considerar l'umorismo, se nel senso largo che comunemente ed erroneamente gli si suol dare, e ne troveremo allora in gran copia così presso le letterature antiche come presso le moderne, d'ogni nazione; o se in un senso più ristretto e più proprio, e ne troveremo allora parimenti, ma in molto minor copia, anzi in pochissime espressioni eccezionali, così presso gli antichi come presso i moderni, d'ogni nazione.

       Indice

      Nel Cap. VIII del libro Notes sur l'Angleterre il Taine, com'è noto, si provò a comparare l'esprit francese e quello inglese. «Non deve dirsi che essi (gl'Inglesi) non abbiano spirito, — scrisse il Taine, — ne hanno uno per conto loro, in verità poco gradevole, ma affatto originale, di sapor forte e pungente e anche un po' amaro, come le lor bevande nazionali. Lo chamano humour; e, in generale, è la facezia di chi, scherzando, serba un'aria grave. Questa facezia abbonda negli scritti di Swift, di Fielding, di Sterne, di Dickens, di Thackeray, di Sidney-Smith; sotto quest'aspetto, il Libro degli Snobs e le Lettere di Peter Plymley son capolavori. Se ne trova anche molto, della qualità più indigena e più aspra, in Carlyle. Essa confina ora con la caricatura buffonesca, ora col sarcasmo meditato; scuote rudemente i nervi, o s'affonda e prende stanza nella memoria. È un'opera dell'immaginazione stramba o dell'indignazione concentrata. Si piace nei contrasti stridenti, nei travestimenti impreveduti. Para la follìa con gli abiti della ragione o la ragione con gli abiti della follìa. Arrigo Heine, Aristofane, Rabelais e talvolta Montesquieu, fuori dell'Inghilterra, sono quelli che ne hanno in più larga dose. Ma pur si deve in questi tre ultimi sottrarre un elemento straniero, la estrosità francese, la gioja, la gajezza, quella specie di buon vino che non si vendemmia se non nei paesi del sole. Nello stato insulare e puro, essa lascia sempre, in fine, un sapor di aceto.

      Chi scherza così è di raro benevolo e non è mai lieto, sente e tradisce fortemente le dissonanze della vita. E non ne gode; in fondo anzi ne soffre e se ne irrita. Per studiar minuziosamente un grottesco, per prolungar freddamente un'ironia, bisogna avere un sentimento continuo di tristezza e di collera. I saggi perfetti del genere si devono cercare nei grandi scrittori, ma il genere è talmente indigeno che si trova ogni giorno nella conversazione ordinaria, nella letteratura, nelle discussioni politiche, ed è la moneta corrente del Punch».

      La citazione è un po' troppo lunga; ma opportuna per chiarir parecchie cose.

      Il Taine riesce a coglier bene la differenza generale tra la plaisanterie inglese e la francese, o meglio, il diverso umore dei due popoli. Ogni popolo ha il suo, con caratteri di distinzione sommaria. Ma, al solito, non bisogna andare tropp'oltre, non bisogna cioè prender questa distinzione sommaria come solido fondamento nel trattare d'un'espressione d'arte specialissima come la nostra.

      Che diremmo di uno il quale dal sommario accertamento che vi son certi tratti fisionomici comuni per cui, così all'ingrosso, distinguiamo un Inglese da uno Spagnuolo, un Tedesco da un Italiano, ecc., traesse la conseguenza che tutti quanti gl'inglesi, per esempio, hanno gli stessi occhi, lo stesso naso, la stessa bocca?

      Per intender bene quanto sia sommario questo modo di distinguere, chiudiamoci per un momento nei confini del nostro paese. Noi tutti, d'una data nazione, possiamo notar facilmente come e quanto la fisionomia dell'uno sia diversa da quella d'un altro. Ma questa osservazione, ovvia, facilissima per noi, riesce invece difficilissima a uno straniero, per il quale noi tutti avremo uno stesso aspetto generale.

      Pensiamo a un gran bosco dove fossero parecchie famiglie di piante: querci, aceri, faggi, platani, pini, ecc. Sommariamente, a prima vista, noi distingueremo le varie famiglie dall'altezza del fusto, dalla diversa gradazione del verde, in somma dalla configurazione generale di ciascuna. Ma dobbiamo poi pensare che in ognuna di quelle famiglie non solo un albero è diverso dall'altro, un tronco dall'altro, un ramo dall'altro, una fronda dall'altra, ma che, fra tutta quella incommensurabile moltitudine di foglie, non ve ne sono due, due sole, identiche tra loro.

      Ora, se si trattasse di giudicare di un'opera d'imaginazione collettiva, come sarebbe appunto un'epopea genuina, sorta viva e possente dalle leggende tradizionali primitive d'un popolo, ci potremmo in certa guisa contentare di quella sommaria distinzione. Non possiamo contentarcene più invece nel giudicar di opere che siano creazioni individuali, segnatamente poi se umoristiche.

      Colto astrattamente il tipo dell'umore inglese, il Taine mette prima in un fascio Swift e Fielding e Sterne e Dickens e Thackeray e Sidney-Smith e Carlyle, e vi accozza poi Heine, Aristofane, Rabelais, Montesquieu. Bel fascio! Dall'umorismo inteso nel senso più largo, come carattere comune, tipico modo di ridere di questo o di quel popolo, saltiamo a piè pari a considerar le singole e specialissime espressioni d'un umorismo, che non è più possibile intendere in quel senso largo, se non a patto di rinunziare assolutatmente alla critica: dico a quella critica


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