Mar sanguigno (Offerta al nostro buon vecchio Dio). Guido Milanesi
del mio paese, sì, ma che parlano tedesco.
Sfilano le scene dalle insulse parole e dalla musica filosofale, nel più profondo silenzio che massa umana possa produrre. Tace persino la tosse del teatro, persistente nota di ogni uditorio.
Crani lucidi e spalle bianche sono immobili; e, disegnate dagli sparati candidi delle marsine, tante file parallele si allineano nella semioscurità della platea, come solchi di un campo nevoso in disgelo.
Incorreggibilmente latino, io trovo che il cosiddetto genio tedesco può essere sempre raffigurato da una enorme piramide rovesciata, ed in bilico su un vertice non suo. L'occhio non vede che una grande superficie tedesca; così, l'origine vera, sapientemente nascosta, gli sfugge. Ecco qua il Capolavoro. In questa folla religiosamente intenta, corrono infatti fremiti che solo l'arte può produrre: io stesso in certi momenti ne subisco il fascino e sento che il veleno tedesco è veramente ben preparato se può infiltrarsi nelle vene così. Ma se analizzo questi momenti di reverenza ne trovo subito l'origine e mi sorprende che tutti costoro non sentano che la piramide oscilla. Il vertice è il Vangelo malamente profanato da erotismo e impasticciato da nebulosi personaggi, faticosamente nati da tavolino tedesco. Kundry non è che una complicata Maria di Magdala, la quale aveva certo dovuto fare innumerevoli orgie di birra prima di mettersi a detergere piedi e a belare «redenzione... redenzione» insieme all'estatico Parsifal, giustamente punito con interminabili «piantoni» per non saper nemmeno lontanamente avvicinarsi alla grande figura che dovrebbe imitare e che può, tutto al più, parodiare. Lo Spirito Santo è distaccato dal cielo per diventare comunissimo piccione, fatto apposta per scorrere lungo un filo di ferro, secondo un sistema tedesco brevettato: l'altare cattolico, dopo la manipolazione tedesca, perde una quantità di cose, ma conserva i gradini, dove al posto dei chierici s'inginocchiano graziose giovanette dalle gambe troppo in vista tra le spaccature laterali della cotta. — Chiamiamole pure Graal queste strane chiese, e chiamiamo pure cavalieri quei buoni personaggi che vi passeggiano dentro e che certo ebbero precedenti da Gambrinus...
O puri, limpidi maestri del mio Paese a cui bastavano poche schiette note a strappare lagrime e far delirare le folle, quando il sentimento italiano era intatto e trovava nella vostra musica la sua perfetta espressione, su dalla tomba! La Germania avanza e stritola i vostri sepolcri che le fanno argine. Ombre insigni e luminose, proteggeteci. — Quando ci avranno assuefatti a questa odierna mentalità musicale, ahimè! — la questione è assai più elevata — sentiremo e penseremo alla tedesca e chiameremo Elsa o Ortruda le nostre figlie: schiavi saremo: irrimediabilmente schiavi...
— È veramente magnifico! Non si può andare più in là! — mi dice l'addetto austriaco mentre cade la tela tra gli scrosci degli applausi e la luce inonda di nuovo la sala.
Vorrei rispondergli con l'ambiguo «tu lo dici!» evangelico, ma trovo miglior soluzione il «colossale!» che gl'inferisco senza smuovere un muscolo del viso: e m'avvedo che la mia parola di commento, grazie al Cielo, lo persuade poco.
Ma intanto gli applausi continuano il loro scroscio. E guardiamola dall'alto questa frenesia morbosa che è un mero fenomeno d'inoculazione di virus tedesco! Sono mani italiane che si agitano, sono bocche italiane che, malate, gridano il loro entusiasmo. È un triste spettacolo patologico da studiare in tutte le sue fasi...
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Fuori, la notte stellare intagliata dai parallelepipedi scuri delle case. I rii fremono della chiusa vita delle gondole che sciamano dal Rio della Fenice in massa compatta per disperdersi nelle oscure arterie d'acqua, dove punti luminosi s'inseguono. Tonfano i remi con risonanze da pozzo, e il grido lugubre dei gondolieri si ripete qua e là come chiamate di animali notturni a cui l'immaginazione presta aspetti favolosi. L'odore della bassa marea, esagerato dall'umidore fresco della notte, sembra condensato e più acuto. — Ah! È ben Venezia questa: l'immutabile Venezia che ci fu tramandata dai padri e che noi dovremo, intatta nella sua reale essenza, cedere alla nostra volta alle generazioni future.
Ma per le calli, sui ponti, lungo le fondamenta, canti isolati persistono, accompagnati dal rumore del passo. Il loggione della Fenice rincasa e son i lamenti di Parsifal, i piagnistei di Tuturel e di Kundry che si insinuano nelle vene di Venezia: da un campiello nascosto si diffonde, stonato, il coro dell'entrata dei cavalieri del Graal. — Come olio velenoso e irresistibile, il canto teutonico si propaga profittando sinistramente del sonno della città. Ma verso la Piazzetta di S. Marco un canto, un canto italiano finalmente s'eleva. La voce è grassa, rauca, intercalata da note gutturali e da note in falsetto...
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