Dal profondo. Ada Negri

Dal profondo - Ada Negri


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tua razza.

      Non mi conosci più?... Forse ti sembro

      più bella adesso, flessuosa nella

      sottil guaina di velluto fulvo

      che mi fa somigliare a una pantera.

      So pettinarmi a onde, con la grazia

      delle dame che passano in carrozza;

      e fingere il sorriso, anche nell'ore

      dello strazio, e mentire una promessa,

      e offrir la mano e il thè, soavemente,

      a chi, se volga il dorso alla mia soglia,

      fa la mia vita ed il mio nome a brani.

      Ho braccialetti d'oro; ma mi pesano

      ai polsi. Ho una collana di rubini,

      ma non la metto, chè mi par la riga

      vermiglia incisa dal capestro al collo

      d'un «sospettato» del Novantatrè.

      Sono rimasta zingara, nel fondo

      del cuore.—Non si mente al proprio sangue.

      E t'invidio.... Tu sei libero e forte:

      non hai padre, nè madre, nè fratelli

      che vivano di te, che al tuo destino

      s'aggrappino: il tuo letto è nell'Asilo

      Notturno: la tua casa è tutto il mondo.

      Domani puoi senza rimorso ucciderti,

      per compiere una tua vendetta oscura

      contro la vita.—Amare anche tu puoi,

      una donna o un'idea perdutamente

      amare; e viver per l'amor tuo grande,

      poi che intatto ti resta il tempo e il sogno.

      Forte e libero tu fra tanti schiavi,

      addio. Colei che passa è tua sorella;

      ma la folla l'inghiotte—e ognun va solo

      col mistero di sè, fino alla morte.

      [pg!7]

       Indice

      T'ho vista ieri, irta ferrigna immobile

      dietro le sbarre d'una vasta gabbia.

      Non guardavi già tu la gente piccola

      che ti guardava.—Ferma sugli artigli

      d'acciajo, gli occhi disperati al torbido

      cielo volgevi, al cielo!...—Uno scenario

      t'hanno fatto di rocce, per illuderti:

      perchè tu creda ancor d'essere in patria,

      fra pietrami di grotte e di valanghe,

      fra protervie di rupi e di ciclopici

      templi, sospesi in vetta a' precipizii,

      in faccia al vento che a procella sibila.

      —Ma non t'illudi tu.—Vedi le sbarre,

      sai che è finita.—Io voglio ora una storia

      dirti d'uomini saggi, che le proprie

      mani a foggiar la propria gabbia adoprano,

      —d'oro o di ferro—quasi sempre d'oro:—

      e bene assai la temprano e la rendono

      inaccessa, e là dentro si rinserrano,

      e si lamentan poi d'essere in carcere,

      guardando il mondo co' tuoi occhi d'odio

      vano e di vana disperazïone.

      Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio,

      fosti ferita, tu, nella battaglia

      feroce, prima d'esser come un cencio

      ignobile fra mano al tuo nemico.

      E stai senza speranza e senza gemito

      vile; e chi passa ti può creder morta

      o sculta in bronzo, così immota e diaccia

      t'irrigidisci, chiusa in un disdegno

      indomito per tutto che non sia

      l'ebbrezza della libertà perduta.

      E, se tu comprendessi, con un colpo

      di rostro lacerar vorresti il volto

      di chi t'offende con la sua pietà.

      [pg!13]

       Indice

      E tu, che passi e non mi guardi, rapida,

      inguainata nella nera tunica,

      avvolto il collo nel tuo boa di martora,

      che, pari a un serpe flessile e contrattile,

      t'accarezza, ti bacia e t'assomiglia!...

      Ne' tuoi capelli bene si dissimula

      qualche filo d'argento, sotto il morbido

      tòcco a turbante. Hai messo un vel di cipria

      a nasconder le prime ombre del tempo

      sul volto.—Non sei vecchia: non sei giovane:

      sei donna, in piena voluttà d'imperio

      sulla vita e sull'uomo.—Ascolta: guardami:

      ugual ti sono un poco, e molte femmine

      ti sono uguali, e al nostro fianco passano

      in questo istante, e sola ognuna credesi

      ad amare, a soffrire, ad esser viva.

      Se a' tuoi piedi la soffice pelliccia

      e la veste procace e le spumose

      trine cadesser, te lasciando nella

      bianca fralezza dell'ignudo corpo,

      sapresti tu vestir questo tuo corpo

      d'un'anima?... Scrutar ben io vorrei

      il tuo tormento interïor, per ansia

      di leggere in un vivo umano libro.

      Ma tu menti: a te stessa anche tu menti,

      menti se piangi, e se sorridi: t'hanno

      insegnata la grazia d'una maschera

      bella, fin dai sereni anni d'infanzia:

      modi, leggi, costumi e fede e dogmi

      altri creò per te: solo ti chiesero

      d'esser leggiadra: nè tu mai dall'intimo

      di te stessa traesti, a colpi d'unghia,

      la verità che ognuno in cuor si porta.

      Vuoi darmi la tua mano?... Una son io

      (la mia razza è di zingari, e nei boschi

      sostano intorno a fuochi di bivacco

      le carovane de' miei padri ancora)

      una son io che, se lo sguardo figge

      in un volto, quel volto si scolora;

      e dalle vinte labbra esce il segreto

      che


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