La disfatta. Alfredo Oriani
Quella del dottore, stretta e lunga, colle frangie dei bracciuoli sfilacciate, metteva tratto tratto un gemito a quel suo dimenarsi, che le aveva slogato un piede; ma egli si sarebbe lamentato, se la contessa Ginevra avesse voluto rimbottirla e tappezzarla di altra felpa.
Giorgi sedeva sopra uno sgabello da pianoforte, la contessa Ghigi spariva quasi, entro una larga ottomana, mentre Prinetti allargandosi sopra una robusta sedia americana, a rete di giunco, perchè qualunque imbottitura gli avrebbe infiammato le reni, grasso com'era, guardava ancora il dottore. Nel mezzo, un piccolo tavolo da giuoco, parato di panno turchino, attendeva la solita partita sotto un magnifico lampadario in bronzo verde; gli altri mobili erano in palissandro, le pareti a damasco azzurro con fiori di un azzurro più carico, il caminetto di marmo nero, il soffitto, dipinto nel secolo scorso, posava sopra un cornicione a stucchi dorati. Pochi bronzi ornavano i tavoli da muro, e tre grandi quadri pendevano da grossi cordoni alle pareti, ma nella luce filtrante dai doppi merletti del lampadario si poteva appena indovinarne i soggetti; mentre a fianco del camino, su due grandi vasi cinesi sembravano accendersi improvvisi bagliori come se i mostri, che vi erano smaltati, si agitassero di quando in quando fra l'aggrovigliamento mostruoso dei loro rabeschi.
La contessa Ginevra, seduta presso il dottore entro una larga poltrona in velluto amaranto, aveva abbassato la testa. Il suo volto di badessa conservava ancora una dolce serenità di comando, sebbene la bellezza non ne potesse più essere la ragione, ora che le guance le si erano così ingrossate, e il mento, appena diviso dal collo per un solco molle di carne, le appesantiva tutta la fisonomia. Ma i suoi occhi neri, larghi ed intelligenti in una tranquillità di luce autunnale, rendevano anche più dolce il sorriso della sua bocca impigrita, sul quale appariva tratto tratto una condiscendenza, quasi stanca, di bontà sopravvissuta a tutte le passioni. Solo le mani, bianche e vellutate come ai bei giorni, vibravano ancora delle nervosità improvvise ed irresistibili della donna. Il resto del suo corpo non aveva più forme femminili; ella s'abbandonava entro abiti larghi, senza voler resistere alla deformazione degli anni se non colla testa e colle mani, quello che ancora la gente poteva vedere in lei, e che forse avrebbe ammirato fino all'ultima ora. Dinanzi al camino un alto seggiolone di quercia, ricoperto di una bazzana a dorature, e una poltroncina in raso roseo parevano una cattedra ed una culla; e dietro di esse, ancora più alto, un candelabro d'argento reggeva una grossa palla, avvolta in una nuvola di fiori, dai quali filtrava una luce da altare. La contessa Maria disse:
—Che vada io nella camera, per tentare di condurla qui?
—Bice non è abbastanza devota.—ribattè il dottore,—per subire il fascino delle vostre spiegazioni. Le direste che il Signore, visitandola con questa afflizione, si è ricordato di lei, e questa, pel momento, non può essere una consolazione.
—Non le avrei detto così.
—Ma, un presso a poco.
—Avrei aspettato che ella parlasse: la carità deve saper ascoltare il dolore, se vuole consolarlo.
—La bestia sono io, contessa; le bigotte, che ho conosciute, m'imbrogliano sempre la bella conoscenza che ho di voi.
—Io non andrei,—disse Prinetti:—non so il perchè, ma fate a modo mio, non andate. Se Bice, che ci ama, vuol restar sola, significa che nessuno di noi può nulla per lei.
—Non ha nemmeno aperto la bella messa di Tchaikowski, che ho potuto ottenere per lei dal Liceo,—disse Giorgi.—Gasperini, il bibliotecario, ha fatto un mondo di difficoltà per prestarmela.
—Giocate dunque voi, dottore, con Prinetti, il vostro solito bezique.
—Sai, Prinetti, giuoca con Giorgi,—ribattè quegli di mal umore:—ho i nervi anch'io.
Si conosceva la tenerezza burbera e brontolona del dottore per Bice.
—Noi due faremo la calza,—si volse la contessa Maria alla contessa
Ginevra,—aspettando che venga De Nittis.
—Allora forse tornerà Bice:—voi, dottore, dormite poichè siete stanco.
—È la vita che mi stanca.
—Eppure la sua prova non è lunga.
La contessa Maria aveva aperto un piccolo sacco da lavoro, traendone quattro grossi gomitoli di lana ordinaria, e due paia di calzettine appena incominciate.
—Via, anche tu, Ginevra, colle tue belle mani!—le disse, mostrandole le proprie sformate dai geloni.
—Centoquindici, centovent'otto, centonovantacinque,—contava già la voce sottile di Giorgi, mentre Prinetti, miope, si chinava sul tavolo per scrivere colla matita, sopra un pezzo di carta, i propri punti.
Nel salotto non si udiva che il ronzio della fiamma chiusa entro la palla di vetro sull'alto candelabro, e il battere sollecito dei ferri fra le mani caritatevoli della contessa Maria. E, a poco a poco, il dottore si assopì sulla poltrona, rimuginando nel pensiero tutta quella triste giornata di lavoro. Era celebre e ricco, ma le miserie, in mezzo alle quali aveva sempre dovuto vivere, gl'impedivano anche allora che la sua carriera aveva trionfato di tutti gli ostacoli, la gioia della vittoria. Poi il dolore di Bice lo spaventava. La ragazza, delicata come un fiore di serra, avrebbe potuto ammalarne; ed ecco perchè egli dava rabbiosamente ragione a Lamberto, quasi per punirsi di non essere riuscito con tutta la propria scienza a metterle la vigoria della giovinezza nel corpo. Ma, se Lamberto non aveva del tutto ragione, Bice aveva certamente torto di annettere tanta importanza ad una scappata giovanile, che si sarebbe sempre dovuto supporre, anche ignorandola. Tale estrema sensibilità non era forse che un effetto dell'anemia, giacchè le nature robuste sanno quasi sempre essere gelose ragionevolmente.
Tutte le sere il dottore veniva dalla contessa Ginevra per un paio d'ore, in quel salotto, a purificarsi, dai contatti inevitabili alla sua giornata di medico, entrando come in un'altra vita spirituale, egli medico materialista, che la negava stizzosamente nella scienza, appunto perchè se la sentiva più imperiosa e profonda di essa nel cuore.
Giorgi e Prinetti seguitavano a contare con voce sommessa: Giorgi pareva un ragnatelo e Prinetti una foca, ma l'uno aveva scritto nella musica sacra forse le ultime più belle pagine, traducendo la violenta passione dell'anima moderna nella eterna passione umana verso Dio; l'altro aveva viaggiato trent'anni, e per dieci era rimasto in Africa lottando per l'abolizione della schiavitù, viaggiatore e soldato eroico, senza riportarne nemmeno la tentazione di scrivere i propri viaggi in un tempo, nel quale non si viaggia più che per scrivere. Però nessun osservatore volgare avrebbe saputo, guardandoli giocare a quel modo, indovinare dal loro aspetto due anime aristocraticamente superiori: solo qualche volta, mentre abbassavano ancora più il tono della voce per non disturbare il lavoro delle due signore, il loro volto s'illuminava di un dolce sorriso.
—Dottore,—disse la contessa Maria,—la piccola Roberti verrà domattina a trovarmi con sua madre.
—Voi credete a quella donna? Sapete perchè era tanto afflitta per la malattia della figlia? Perchè spera di poter presto vivere sopra di lei.
La contessa Maria non si mosse.
—Forse il Signore non lo permetterà.
—Permette ben altro! Il popolo lo conosco più di voi, perchè ci sono nato: nulla potrà mutarlo. Novanta volte su cento la vostra bella carità diviene alimento a' suoi vizi; il popolo non crede, non spera, ma vuole evitare di soffrire ad ogni costo.
—È tanto che soffre,—rispose la contessa Ginevra.
—Quando soffrirà meno, sarà anche peggiore. Solamente l'egoismo dei poveri supera quello dei malati; almeno questi, atterriti dalla morte, sentono talora la riconoscenza, se si arriva a salvarli; mentre i poveri prendono sempre, invidiando secretamente, sino all'odio, quelli che donano loro.
—Voi avete diritto di essere severo colla miseria, giacchè ne avete trionfato,—replicò con dolcezza la contessa Maria;—ma noi, che non abbiamo fatto nulla, saremo sempre debitori verso i poveri. Se Dio ci ha preferito in questo mondo per la sua misericordia, vuole però che ne cerchiamo il secreto nei dolori della povera gente: aiutandoli a soffrire,