Uno, nessuno e centomila. Luigi Pirandello

Uno, nessuno e centomila - Luigi Pirandello


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lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo cosí come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre. Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro; tanto vero che non era piú qual era stato da ragazzo, e non era ancora quale sarebbe stato da vecchio; e io oggi cercavo di riconoscerlo in quello di jeri, e cosí via. E in quella testa lì, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le piú svariate visioni: ecco: d'un bosco che nereggiava placido e misterioso sotto il lume delle stelle; di una rada solitaria, malata di nebbia, da cui salpava lenta spettrale una nave all'alba; d'una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa restava lì di nuovo immobile e dura nell'apatico attonimento.

      Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.

      Ma, all'improvviso, mentre cosí pensavo, avvenne tal cosa che mi riempí di spavento piú che di stupore.

      Vidi davanti a me, non per mia volontà, l'apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all'indietro, contrarre le labbra in su e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d'una coppia di sternuti.

      S'era commosso da sé, per conto suo, a un filo d'aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.

      – Salute! – gli dissi.

      E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.

      Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate dall'innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.

      1a - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;

      2a - che non potevo vedermi vivere;

      3a - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;

      4a - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;

      5a - che il mio corpo, se lo consideravo da fuori, era per me come un'apparizione di sogno; una cosa che non sapeva di vivere e che restava lì, in attesa che qualcuno se la prendesse;

      6a - che, come me lo prendevo io, questo mio corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;

      7a - che infine quel corpo per se stesso era tanto niente e tanto nessuno, che un filo d'aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani portarselo via.

      Queste due per il momento:

      1a - che cominciai finalmente a capire perché Dida mia moglie mi chiamava Gengè;

      2a - che mi proposi di scoprire chi ero io almeno per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre dispettosamente quell'io che ero per loro.

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