Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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Cristo, tuttochè mansuetissimo fra le creature, quando gli occorse il tempio contaminato dai pubblicani e dai rivenditori, a colpi di flagello li cacciò via dal portico; e vendevano mercerie, o commestibili; i Giornalisti poi vendono la coscienza, e non mica nel portico sibbene dentro il tempio, anzi nel santuario, dove impugnato il corno dell'altare della Libertà, in nome della Iddia pretendono asilo.

      E tuttavia come cosa barbara gli asili antichi abolironsi, e chi vi rifuggiva s'ingegnava sottrarsi alla pena di delitto commesso, e forse gli rimordeva la colpa; ad ogni modo costui o non poteva o male rinnovare la colpa mentre i Giornalisti abbracciano l'ara della Libertà per continuare impuni i misfatti; nè di altro sentono rimorso, che di non avere fatto peggio.

      Per tema di offendere l'altare nel colpire il nefario, che lo abbracciava quando tenni in mano la scure del potere, aborii adoperarla; nè me ne astenni solo, bensì curai, che i diari infesti e pieni d'ingiustizia liberamente si propagassero: non sono vanti questi ma verità, e fossero vanti, veruno può contrastarmeli; però, molto meno privato cittadino devo adoperarmi a restringere per anticipazione l'esercizio liberissimo delle facoltà dell'uomo; tanto però ho chiesto, ed in tanto insisto, che ogni scrittore apponga il nome sotto il suo scritto; questo impongono la giustizia e la buona morale, e dacchè gli scongiuri mossi a custodia di cose siffattamente necessarie non sortirono l'effetto desiderato; intervenga la legge e comandi; pei trasgressori metta le pene. Ai liberi uomini sconviene camminare come i topi nei cunicoli; e quando troppi, rodendo le staminare al buio pongono in pericolo la nave, il marinaro li leva di mezzo con la stufa.—Nè mi acqueto punto all'obietto, che in fondo al Diario occorre il nome del Direttore il quale malleva di tutto, perchè il Direttore sta lì per finzione, nè si può disprezzare altrui per finzione, e molto meno trovo giusto punirlo; e poi sovente il Direttore si sceglie per la ragione, che natura ed arte gli foderarono la faccia di zinco sopra ogni altra creatura umana; non potrebbe toccare mai a cittadino onorato peggiore fortuna, che prendere briga con taluno di quelli che si appellano Direttori di Giornali; chi con le mani ignude vorrebbe raccattare lo scorpione…?

      Anco questo il popolo si abbia per segno di Libertà verace;—il cessare la compra e vendita delle coscienze co' danari spillati dal sudore del popolo per difendere le colpe e gli errori dei governanti, e per assassinare i cittadini dabbene. Da sè il Governo libero e degno di popolo libero si difenda aperto, franco, ed ardito, e cacci da sè lontano i sicarii; perchè, che cosa mai altro sono gli scrittori comprati se non sicarii della penna? Si, sicari della penna.

      E questo fu detto, e lo andremo ripetendo, finchè la esecrazione pubblica non gli abbia presi a sassi: ella è la morte dei lupi affamati; tornate, o paltonieri, ai solchi aviti, che vi piangono lontani, tornate magari nel ghetto a vendere ciarpe, scorticate clienti, uccidete infermi, tuffatevi rospi nel sembiante, e più nell'anima nei fanghi del Sebeto e della Dora; tutto men peggio, che vedere caduta la Patria tra gli artigli di questi sciagurati adoratori della nuova Trinità d'ignoranza, di prosunzione, e di viltà, ch'essi hanno inventato per uso loro e dei loro divoti. Intantochè la stampa, pari all'asta di Achille, non abbia curate le ferite che ha fatto, sopportiamola come si sopporta il fumo che precede la fiamma, letizia degli occhi e ricriamento delle membra assiderate.

      Poichè questa nostra resurrezione, mercè la setta stupida ed iniqua, che sì argomenta, assai si rassomiglia ad un campo-santo, e poichè l'alba con tanta ansietà aspettata si manifesta col raddoppiare del buio, mi proverò io a compire il debito della nuova generazione: nelle notti di estate, quando l'oscurità afosa ingombra fitta la terra, anco la lucciola pare una stella.

      Una volta io possedeva una cosa buona, e la gioventù un'altra, cento cotanti migliore; io aveva il braccio forte, la gioventù un petto pari all'antico ancile[1] lo scudo venuto dal cielo, onde allorchè io ci battevo sopra, quel cuore-scudo sprizzava scintille d'ingegno e di virtù; ora, vedrete, il suo rumore sbanderà impauriti i giovani quasi colombi alla pastura.

      [1] Scudo che Numa finse caduto dal cielo dalla conservazione del quale dipendevano i destini dello impero romano. L'Imperatore innanzi di rompere la guerra si conduceva nel vestibolo nel tempio di Marte dove scossi prima gli ancili (erano due, uno genuino, l'altro imitato per tema lo involassero) toccava poi con la lancia il Dio gridando: Mars vigila, Marte svegliati.

      Mi si dice esserci noi discostati dalla servitù; questo può darsi: io domando questo altro: di quanto ci siamo accostati alla libertà?—Tu gitti, mi si risponde, sopra la carta la tua anima come lava ardente, e veruno ti torce un capello; un dì per questa colpa quante carceri hai tu visitato?—È vero, io sussurro sgomento, ma la carcere ci appariva gioconda quasi stanza nuziale, perchè l'onda delle passioni popolesche sommossa dalle nostre parole, ne percoteva i muri come mare in tempesta: confidavamo che le sarebbero state seme di verace libertà:—coraggio, gridavano l'uno all'altro, erpichiamoci anco su quel dirupo, superato quel monte, addio nevi, addio dolori, e fatiche; la Libertà ci aspetta tutta amorosa a mo' che apparisce la sua benedetta culla, la Italia, a coloro che scendono giù dal Moncenisio. Affascinati gli occhi dalla divina speranza, chi sentiva le piante lacere dal tormentoso cammino, e chi, sentendole, avrebbe ardito lamentarsene? Ora, valicato quel monte ci sorge davanti un'altro monte più aspro, e rigido di ghiaccio; i cagnotti dell'antica tirannide, mutata veste, tribolano come prima; della Libertà accadde quello che favoleggiano avvenisse alla Giustizia la quale volando al cielo lasciò cascarsi la veste; i Giudici di cotesti tempi lontani la presero, la tuffarono nella propria coscienza e la fecero nera; d'allora in poi, gli uomini scambiarono la toga per la giustizia, proprio a quel modo che eglino adesso per lunga stagione, hanno barattato la Libertà con le insegne di lei. E da per tutto così. Poteva durare vitale la Libertà ch'ebbe per compare il marchese Lamartine? Poteva essere Libertà quella, covata dal Barone Ricasoli e compagni, superbi odiatori del popolo più che del sangue viperino? A Parigi, come altrove, e forse lì peggio che altrove, una mano di aristocratici e di sofisti adoperarono il popolo secondo che costuma il ladro della scala per salire alle finestre della reggia, e saccheggiarla in nome della Libertà: piaggiatori palesi della moltitudine, quanto più in segreto la odiavano, non guidatori, l'accesero a brame impossibili; poi la saldarono a cannonate. Il popolo si accosciò sgomento e tu ora (atroce a dirsi!) lo raccogli per combattere guerre, che nulla gli dice essere patrie, nella guisa stessa che traduci in vincoli il malfattore affinchè paghi la pena. Con la faccia china alla terra bagnata dal suo sudore, il popolo mormora: ora e sempre, questa terra rappresenta per me travaglio disperato, e sepolcro miserabile. Chi basso, chi alto, ma fin qui tutti quelli che vedemmo succedersi, ombre grottesche di lanterna magica sopra la parete avversa, ci hanno intonato agli orecchi;—servi, paga, e ce ne avanza.—Nè ometto qualche altra cosa, che è questa:—scegliti prima il padrone, e poi, quando ti chiameremo a pagare il tuo tributo di sangue corri a gambe; se meni un solco lascialo a mezzo come costumò il Putnam americano; se ti manca cucire gli ultimi punti ad un'abito, buttalo là; se la chiamata ti coglie mentre ti curvi a baciare nella culla il tuo figliuolino, rompi la curva, e vienne via; se abbracci la tua consorte sciogliti e respingila; se cali adagio adagio l'amata salma paterna nella fossa, scaraventala giù di tonfo, corri a salvare la Patria tutto di un fiato—emula Euchida che nel giorno stesso preso il fuoco a Delfo ritornò a Platea di tutto corso facendo ben cinquanta leghe di cammino, e portò il fuoco, dopo salutati i cittadini morì;[1] e bada qui, sta' attento, la Patria siamo noi.—

      [1] Plutarco in vita Aristid. § 20

      La Libertà è cosa oltre ogni estimativa preziosa, bisogna che tu popolo la paghi cara, anzi carissima. Lo ha detto chi non poteva fallare. Ma dove alberga, di grazia, e come ha faccia la Libertà? La Libertà è pianta che cresce; e vive a Torino, dove gli alberi privi dell'onore delle foglie paiono spettri sette mesi dell'anno; là Libertà, guardaci bene, è fatta ad immagine nostra.

      Insomma, come la donna adultera della scrittura, questa setta empia si frega i denti e dice:—io non ho peccato!—All'opposto, sfrontata e bugiarda dopo avere seguito da lontano il Lione del popolo e dopo essersi, sozzo Jakallo, pasciuta dei suoi rilievi, montata su i trampoli, strilla:—-io feci, io fui.—

      Sembra impossibile a qual punto d'insania ella trascorra, perocchè adesso senza impeto alla scoperta ti affermi:—tarlo della Monarchia, io m'imposi; trovo il mio conto a roderla, e con lei mi sto, nè fie che me


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