Il Quadriregio. Frezzi Federico

Il Quadriregio - Frezzi Federico


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che nell'altro emisperio a quello opposto

       faceva aurora e quivi prima sera.

      E, per meglio vedere, io m'era posto

       5 alto in un sasso e lí cogli occhi attenti

       stava sperando che venisse tosto.

      Intanto fûn del sole i raggi spenti;

       e giá 'l cielo mostrava ogni sua stella,

       e non sentéa se no' 'l soffiar de' venti.

      10 —Quando verrai, o Ionia ninfa bella?

       —dicea fra me;—perché tanta dimora?

       Qual sará la cagion che sí tarda ella?—

      Qual va cercando l'angosciosa tora,

       a cui il figlio o la figliola è tolta,

       15 che soffia e cerca e mugghia ad ora ad ora,

      e poi si folce e coll'orecchie ascolta;

       tal facea io, ed alquanto la spene

       dalla sua gran fermezza s'era vòlta.

      Queste son le saette e dure pene,

       20 che balestra agli amanti il folle Amore;

       ché se speranza o tarda o in fallo viene,

      quanto sperava, tanto ha poi dolore;

       ché sempre volontá s'affligge tanto,

       quanto a quel che gli è tolto avea fervore.

      25 Io cercai per quel bosco in ogni canto

       insino al primo sonno e chiamai forte,

       aggirando quel loco tutto quanto,

       p. 86

       come fe' Enea alla suprema sorte

       cercando della misera Creusa,

       30 rimasa in Troia dentro delle porte.

      Eco tapina, che vive rinchiusa

       tra le spelonche, mi dava risposta

       al fin della parol, come far usa.

      Per ritrovarla scesi poi la costa,

       35 e driada trovai su nel sentiero,

       che a guardar le ninfe ivi era posta.

      —Deh dimmi, driada, prego, e dimmi il vero,

       se delle ninfe ve ne manca alcuna,

       o se 'l numero loro è tutto intero.

      40 —Quando la notte ieri si fe' bruna

       —rispose quella,—Ionia n'andò via,

       e non era levata ancor la luna.—

      E disse a me che cenno fatto avía

       la dea Ciprigna, acciò ch'andasse a lei

       45 cosí soletta senza compagnia.

      —Ma io, o giovin, volentier saprei

       perché tu ne domandi ed a quest'otta

       come vai quinci, e dimmi che far déi.—

      Risposi:—Iersera, quando il dí s'annotta,

       50 io vidi lei; ond'io maravigliai

       che sí soletta andar s'era condotta;

      ch'i' so che in questo loco stanno assai

       centauri e fauni, e so che qui ed altrove

       sono alle ninfe infesti sempremai.

      55 Io temo, o driada, che alcun non la trove

       e, sol da questo mosso, quaggiú vegno:

       questo a venir di notte qui mi move.

      —Se Citarea, la dea di questo regno

       —rispose quella—volle ch'ella gisse

       60 ed acciò ch'ella andasse gli fe' segno,

      nullo saría centauro che ardisse,

       né che potesse impedirgli l'andata,

       la qual i fati e la dea gli prescrisse.

       p. 87

       Ma, se questo non è e fie trovata,

       65 null'altra cosa, credo, la ripara

       che non sia presa e che non sia sforzata.—

      Ahi, quanto esta risposta mi fu amara,

       credendo fermamente fosse presa!

       E questa opinion mi parea chiara;

      70 ond'io risalsi insú tutta la scesa,

       che avíe fatta, e giunsi su nel piano,

       ove aspettato avíe con spene accesa.

      Io dicea meco:—O ninfa, alla cui mano

       or se' venuta? O vaga giovinetta,

       75 qual fauno t'ha scontrata o qual silvano?

      Questa è, Cupido, tua crudel saetta,

       e grave pena è la tua fiamma dura,

       se tardi o togli quel che spene aspetta.

      E l'altra è gelosia e la paura,

       80 che, perché la bellezza troppo s'ama,

       però in nulla parte è mai secura.—

      Cosí andai chiamando quella dama,

       come colui che una persona sola

       vuol che lo 'ntenda e timoroso chiama,

      85 che dice ratto e parla nella gola;

       e tal i' la chiamai ben mille volte,

       qual Eco rende 'l suon della parola.

      Tant'eran giá del ciel le rote vòlte,

       che Aurora giá mostrava sua quadriga,

       90 e giá Titon gli avea le trecce sciolte,

      quando pel pianto e per la gran fatiga

       convenne che giú in terra io mi colcasse,

       e piú per lei cercar non mi diei briga.

      In questo parve a me che in me entrasse

       95 il sonno, che ristora e che riposa

       a' mortali le membra stanche e lasse.

      Mentr'io dorméa, apparve a me, amorosa

       e piena di splendor, la bella Ilbina,

       in apparenza piú che umana cosa.

       p. 88

       100 —Lévate su,—mi disse,—ch'è mattina:

       Cupido tante volte t'ha tradito,

       egli e la madre sua, che è qui reina.

      Sappi che a Ionia il petto egli ha ferito

       d'un dardo oscuro ed impiombato e smorto,

       105 che 'l venir suo a te ha impedito.

      L'amor, che avea a te, in lei è morto;

       e ad un fauno vile, rozzo e negro

       l'han data per amante e per conforto:

      colui del suo bel viso ora sta allegro.

       110 E perché queste cose, c'ho racconte,

       le sappi appieno e tutto il fatto intègro,

      quand'ella a te venía quassú nel monte,

       perché piacesse a te piú la sua vista,

       di rose s'adornò il capo e il fronte.

      115 Cupido allor d'una saetta trista

       ed impiombata dentro al cor gli diede,

       colla qual fa ch'all'amor si resista:

      questa ogni amor gli tolse ed ogni


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