Pensieri, Discorsi, Illustrazioni. Francesco Domenico Guerrazzi
A rompere le ire del superbo Antioco quali tolse compagni Popilio nel periglioso viaggio? La bacchetta proconsolare, e il genio di Roma. E il tiranno si trovò preso dentro il circolo di Popilio, non altramente che lo scorpione cinto da carboni infiammati: — ma il tiranno fremeva, e si umiliava, — mentre lo scorpione avrebbe saputo trafiggersi da forte.
VI.
Regi barbari e schiavi ingombravano le aule dei Senatori. — A guisa del mendico, che importuna il limitare del dovizioso, i dominatori dei popoli stendevano supplici la mano ai cittadini di Roma limosinando una corona. E il popolo di Roma nei giorni di tripudio gettava a cotesti suoi soggetti dominatori di popoli pugni di corone e di popoli, come gittava per vaghezza migliaia di Germani o di Galli alle fiere nei virili suoi giuochi.
VII.
Il giorno in cui Giove rende l'uomo schiavo, gli toglie mezzo il senno;[5] Roma superò Giove, perchè valse a mutare in eroi anche gli schiavi. Spartaco col ferro delle catene si compose una spada, e ardì insorgere contro Roma, e morire di ferita nel petto. E Spartaco morendo levò gli occhi al cielo, e lo benedisse per la morte gloriosa. — Cotesto esempio non sarà imitato: da Spartaco in poi non vissero più schiavi. — Perchè dunque, o come, si vorrebbero invidiare e seguire i destini del servo romano?
VIII.
Quando la morte ti aperse le mani, o Roma, il mondo sembrò che tornasse nella pristina confusione delle cose; come le foglie della Sibilla, terminato il responso. — Nel naufragio della civiltà, delle leggi, di una religione per bene cento secoli durata, peristi, e le rovine di tutta la terra ti furono portentoso sepolcro.
IX.
Dormi in pace, non agitarti dentro il sepolcro. — Encelado fulminato, potrai forse prorompere a modo di vulcano, ma non infrangere i fati che siedono sopra il tuo avello; nella guisa stessa che il Titano non può levarsi di sul petto la montagna di fuoco.
X.
E pure qualche volta, spettacolo di miseria e di spavento, lanciato in aria il coperchio della tua sepoltura, balzasti fuori col collo reciso brancolando pei campi dello universo in traccia di una testa conveniente per te.
XI.
Invano prendesti il capo degli Ottoni; invano quello dei re Longobardi; invano dei Carlovingi. — Troppo ti furono pesi quelli degli Svevi. — Giulio, Gregorio e Alessandro, sia che il volere li trattenesse, sia che il sacerdozio gl'impedisse, male seppero adattarsi il tuo elmo pesante. — I capi di un Doge, di un Gonfaloniere, di un Duca di Milano, apparvero troppo piccoli alle immani tue spalle. — Quietati! — Due furono teste che convenivano a te: una sta in Roma, e fu di Cesare; — l'altra stava in mezzo all'Oceano, — e fu di Napoleone; entrambi tuoi figli, — entrambi aliti della magnifica anima tua.
XII.
Le antiche mura che ancor teme ed ama, E trema il mondo,[6] andarono disperse in polvere per tutti i venti della terra, quasi cenere di parricida. — Roma insana di dolore si cacciò, come Catone, da se stessa le mani dentro le viscere, e le stracciò in brani, aborrente di sopravvivere ai suoi fati; — poi scese una grande adunanza di Barbari a flagellarla legata alla colonna, — a ferirla di lancia inchiodata sopra la croce della necessità,[7] — e parvero eroi a cagione dell'agonia della nemica; — ancora, si assembrarono in numero infinito per vedere se fosse morta bene, e se bene stesse chiusa dentro il sepolcro, rompendo orribilmente il cadavere per assicurarsi meglio: — nè ciò bastando (chè la tomba stessa metteva spavento), si congregarono un'altra volta per seppellirne il sepolcro. — In verità, le ire della fortuna, la onnipotenza dei fati, e la paura dei popoli, hanno sepolto prima il cadavere, poi la sepoltura![8]
XIII.
Avete mai veduto la fiammella scaturire da una fossa funerea, svolazzare per la campagna come vaga di cosa che non trova, e poi tornarsi delusa pellegrina a chiudersi nell'antica dimora? — Così, come a Dio piacque, sopra questa terra visse un poeta, il quale superato il tremito delle ossa, e lo spavento dell'anima, si cacciò dentro ai romani sepolcri: rovesciò tutti gli avelli, speculò tutte le urne, rimescolò le antiche ceneri, tentando se mai una favilla romana fosse rimasta per alimentare un fuoco nuovo. Dio di misericordia! — La Fortuna e Nemesi avevano conservato la lampada accesa dentro il sarcofago di Tullia, la figlia diletta del supremo oratore di Roma....[9]
XIV.
«Sospenda ogni alito il creato, — taccia ogni vento, e sia pur quello che spoglia del profumo i fiori in primavera, — non muova un'aura, quantunque sopra candida nube ella si affretti di recare in cielo il voto degl'innocenti oppressi. — Angioli del paradiso, voi pure cessate i cantici, fermate il remeggio delle ali sante; deh! mi sia dato conservare la scintilla: io l'ho trovata, io vi ho trasfuso dentro, per alimentarla, l'anima mia; per lei ho cominciato a leggere in parte l'arcano della genesi nuova: — amare, e parlare...»
XV.
Il Fato strinse il suo libro di granito, e sorrise. — Quando l'aria esterna ebbe vinta quella del sepolcro, la lampada dilatò con estremo conato la sua pupilla luminosa, e si spense per sempre! — L'aria che respiriamo più assai riusciva mortale che il fiato della tomba di Tullia.
XVI.
E quando il poeta vide la lampada morta a cagione dell'aria, che egli pensava pura, ruppe la cetra, percuotendola nell'angolo della tomba della figlia di Cicerone, gittò via dalla fronte la corona di alloro, e postosi a giacere sopra il terreno nudo, vi battè ambe le palme, esclamando con grandissimo pianto: «Apriti, o Madre, e cuoprimi; voglio morire anch'io!»
XVII.
Riposa dunque in pace nel tuo sepolcro, o Roma; e dove mai la esultanza visitasse le tombe, rallegrati: — tu sei la più grande ombra nei regni della morte, siccome fosti la più immensa dimostrazione