Miei Pensieri di varia Umanità. Giovanni Pascoli
cara mamma! Costui è un imbecille, quando non è uno che finga e abbia bisogno di darsi l'aria di amare quella che è così facile amare! Oh! la madre è malata, la madre è lontana, la madre è morta! Ecco che allora ci si pensa, alla mamma, e ci si strugge. Oppure la mamma ha una gran consolazione; e noi siamo più che consolati, e ci sentiamo invasi da un impeto di canto. Così per la patria. Non ci accorgiamo di lei, se non nelle sue feste e nelle sue (nostre) disgrazie. E allora prorompe anche dal cuore del fanciullo il grido di gioia e il grido di dolore; ed è grido che ha subito mille echi. Ma il bambino non è un babbino che s'impanchi a far lezione quotidiana d'amor patrio o d'amor paterno e materno ai suoi fratellini, e anzi ai suoi zii e nonni. Chi pretende che faccia questo, vuole che il vispo fanciullo sia un vecchio noioso: vuole, insomma, che non esista la poesia. Perchè la poesia, costretta a essere poesia sociale, poesia civile, poesia patriottica, intristisce sui libri, avvizzisce nell'aria chiusa della scuola, e finalmente ammala di retorica, e muore. E noi di questa pseudopoesia ne abbiamo tanta, sin da quando morto Virgilio, invecchiando Orazio, chiusa la grande rivoluzione che cominciò, si può dire, e finì con la morte di due donne, di Giulia e di Cleopatra, la figlia e la amante di Cesare: ebbene i corvi, quali Pindaro li avrebbe chiamati, si gettarono gracchiando sull'immenso campo di battaglia, per beccare non occhi di uccisi, ma semi di poesia. E che facevano essi? Raccontavano un fatto storico, di quelli ultimi; lo condivano con declamazioni, esclamazioni, maledizioni; e lo mettevano in esametri. Ma anch'essi capivano che non bastano i versi a far poesia; e perciò incorniciavano la loro storia verseggiata e declamata con una descrizione di alba e un'altra di tramonto; e il poema era fatto.[25] Ecco Giulio Montano. Questi era un poeta come tant'altri. A ogni tratto inseriva albe e tramonti. Pertanto, poichè un tale s'era seccato ch'egli avesse recitato per tutto un giorno, e diceva che non si doveva andare alle sue recite; Natta Pinario esclamò: «O che io posso essere più condiscendente con lui? Io sono pronto a starlo a sentire da un'alba a un tramonto!» — Voleva dire, il buon Natta, che la seccaggine sarebbe durata poco, e che dopo due o tre versi esso poteva andare pei fatti suoi.[26] È inutile. Già Orazio ammoniva che non bastavano le descrizioncelle, le digressioncelle, le belle toppe rosse e gialle, per far di prosa poesia.[27] Bisogna che il fatto storico, se vuol divenir poetico, filtri attraverso la maraviglia e l'ingenuità della nostra anima fanciulla, se la conserviamo ancora. Bisogna allontanare il fatto vicino allontanandocene noi. Volete una prova a cui distinguere la poesia dalla pseudopoesia, in siffatto genere storico? Se la narrazione, che il verseggiatore vi fa, vi commuove meno che la stessa, fatta in prosa, dallo storico e dal cronista, dite pure che il verseggiatore ha tradotto, e male; non ha poetato. E ha perduto il suo tempo e ha fatto perdere a noi il nostro.
Ma in Italia la pseudopoesia si desidera, si domanda, s'ingiunge. In Italia noi siamo vittime della storia letteraria! Per vero, nè in Italia soltanto, mi pare che delle lettere si sia ingenerato un concetto falso. Le lettere sono gli strumenti delle idee, e le idee fanno di sè tanti gruppi che si chiamano scienze. Ma noi, fissati sugli strumenti, abbiamo finalmente dimenticato i fini. Siamo agricoltori che non pensano se non alle vaghe e non parlano se non di aratri, e più delle loro bellurie che delle loro utilità. Delle semente, della terra, dei concimi non ci curiamo più. Quindi avviene che abbiamo, come fisici, filosofi, storici, matematici, così letterati; modo di dire, come coltivatori di canapa, di viti, di grano e d'ulivi, così periti di vanghe e d'aratri, i quali non s'occupano di altro, e credono che non ci si debba occupar d'altro, e stimano, io vedo, che la loro sia la più nobile delle occupazioni. E almeno li facessero loro, codesti strumenti: no, li «giudicano» e li «collezionano». Codest'ozio noi chiamiamo ora critica e storia letteraria. E ognun può vedere che ci sono cose molto più utili e belle da fare: cioè coltivare e seminare. Ma c'è pure, tra le tante branche della letteratura, la poesia che sta a sè, la poesia che comprende in sè tutto ciò che si dice e scrive per diletto, amaro o dolce, suo o altrui. Questa non è rispetto alle scienze quello che lo strumento rispetto al fine. È una coltivazione, poniamo, anch'essa, ma d'altro ordine e specie. È, poniamo, la coltivazione, affatto nativa, della psiche primordiale e perenne. Ma noi la mettiamo insieme con l'altra letteratura «strumentale», e ne ragioniamo allo stesso modo. La dividiamo per secoli e scuole, la chiamiamo arcadica, romantica, classica, veristica, naturalistica, idealistica, e via dicendo. Affermiamo che progredisce, che decade, che nasce, che muore, che risorge, che rimuore. In verità la poesia è tal maraviglia, che se voi fate una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono. Come mai? Così: l'uomo impara a parlare tanto diverso o tanto meglio, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio; ma comincia con far gli stessi vagiti e guaiti in tutti i tempi e luoghi. La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto. E quindi, nè c'è poesia arcadica, romantica, classica, nè poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e... non poesia. Sì: c'è la contraffazione, la sofisticazione, l'imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi. Ci sono persone che fanno il verso agli uccelli: e al fischio sembrano uccelli; e non sono uccelli, sì uccellatori. Ora io non so dire quanta vanità sia la storia di codesti ozi. Eccola in due parole. Un poeta emette un dolce canto. Per un secolo, o giù di lì, mille altri lo ripetono fiorettandolo e guastandolo; finchè viene a noia. E allora un altro poeta fa risonare un altro bel canto. E per un secolo, o più o meno, mille altri ci fanno su le loro variazioni. Qualche volta il canto iniziale non è nè bello nè dolce; e allora peggio che mai!
Ma in Italia, e altrove, non stiamo paghi a questo compendio. Ragioniamo e distinguiamo troppo. Quella scuola era migliore, questa peggiore. A quella bisogna tornare, a questa rinunziare. No: le scuole di poesia sono tutte peggio, e a nessuna bisogna addirsi. Non c'è poesia che la poesia. Quando poi gl'intendenti, perchè uno fa, ad esempio, una vera poesia su un gregge di pecore, pronunziano che quel vero poeta è un arcade; e perchè un altro, in una vera poesia, ingrandisce straordinariamente una parvenza, proclamano che quell'altro vero poeta pecca di secentismo; ecco gl'intendenti scioccheggiano e pedanteggiano nello stesso tempo. Qualunque soggetto può essere contemplato dagli occhi profondi del fanciullo interiore; qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima.
Voi dovete soltanto giudicare (se avete questa mania di giudicare) se furono quelli occhi che videro; e lasciar da parte secento e Arcadia. La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco; i quali, quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso.
Solamente s'ha a dire che raramente appariscono. Sì: la poesia, detta e scritta, è rara. Proprio rara la poesia pura. Ma c'è la poesia «applicata». La poesia «applicata» è dei grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi. Ora, molto ci corre che questi siano tutta poesia. Imaginate che siano un gran mare, ognuno. Nel mare sono le perle: ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno. Occorre anche dire che in essi poemi, drammi, romanzi la poesia pura di rado si trova pura. Faccio un esempio. Una di queste perle, nel grande oceano perlifero che è la divina Comedia, diremo la campana della sera:
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