Fuochi di bivacco. Alfredo Oriani
non lascia in noi, colla simpatia della pietà, lo stesso terrore del mistero. Quindi nel meriggio della virilità e sulla vetta della gloria tacque per quarant'anni in un sapiente silenzio interrotto soltanto dai lazzi della conversazione, mentre sentiva forse con amara tristezza superata l'opera propria. Che se potè ridere alle deviazioni dei nuovi avversari, i quali domandavano alla musica ciò che la musica non può dare, la grande passione poetica e musicale del secolo decimonono dovette indubbiamente passare attraverso il suo tramonto come un uragano sanguigno e rutilante, che scomponeva tutti i paesaggi mutandone persino le voci.
Allora il suo egoismo di uomo e di artista egualmente esauriti tremò sotto la maschera scettica, e il vecchio maestro cadde troppo tardi per rialzarsi chiedendo alla passione le supreme rivelazioni della vita. Bellini, Donizetti, Chopin, Schumann, invece, ne erano morti; Wagner errava ancora come un bandito, Berlioz delirava nell'abbandono, Verdi restava solitario e triste nel trionfo, e Bizet, l'ultimo originale ingegno del teatro francese, si preparava a morire sotto la sconoscenza del pubblico.
Eppure nel Guglielmo Tell Rossini raggiunse quasi il capolavoro, e tale sembrerebbe ancora oggi, attraverso tanto mutamento di mode teatrali, se nella sua musica la passione fosse più viva. Viva parve allora alla folla e agii eletti, che amavano la patria assai più di una donna, mentre l'eroico amore era punito atrocemente da tirannidi indigene e straniere; viva la dissero i poeti e la temettero coloro, pei quali la risurrezione dell'Italia avrebbe fatalmente segnata l'ora della morte. Oggi, invece, il melodramma nella sua compostezza classica appare freddo, pur riattirando col fascino di una novità le orecchie e le anime affaticate dai garbugli sinfonici e drammatici, che occupano ancora la scena moderna e pretendono di fare nella musica una rivoluzione superiore alla musica stessa. Ma essa non sarà mai che il linguaggio del sentimento, al di là della parola, quando lo spirito vibra d'indicibili emozioni negli spasimi di un dramma vero o immaginario: sarà la lingua universale, che accorda i cuori accomunando gioie e dolori, ritmi e canti sul teatro, nell'illusione di una favola che non può superare nei propri personaggi il pretesto del cantare stesso. Quindi il loro canto consolerà tutti nella folla, appunto perchè ognuno potrà appropriarselo come un motivo impersonale.
Rossini, che lo sapeva, si vantava di poter musicare anche la lista della lavandaia, mentre oggi pubblico e critici, quando la musica di un'opera è fallita, accusano il libretto.
Il grande scettico non musicò poi quella lista, ma avrebbe potuto farlo con un motivo bello, perfettamente estraneo alle parole come nel suo famoso Stabat Mater. Che importa se la tragica e originale ode della nuova poesia latina non vi è espressa?
Anzitutto la musica non avrebbe potuto significare la tragedia del Golgota: poi quel motivo è bello, e il pubblico ascoltandolo pensa a tutto fuorchè al dolore della Madonna, si commuove, applaude ed ha ragione.
Tanto peggio per chi non lo crede.
27 settembre 1902.
LA VOCE
Ancora mi canta nell'anima come un'eco della giovinezza dileguata, quando da ogni fiore delle siepi ci giungeva sulla strada un saluto, e via pel cielo, tra il volo traballante delle libellule, fuggivano agitando i diafani veli misteriose ed inafferrabili visioni.
Ricordate nella Massimilla Doni di Balzac, il vecchio romanzo, quel patrizio anche più vecchio, che nella inconsolabile malinconia del tramonto veneziano senza gloria nè di arte nè d'impero si era rifugiato dentro la musica, e anche lì, inseguito da tutte le vanità e le insufficienze della vita, non amava, non chiedeva più che l'accordo di due note, la fusione di due voci? Mai forse il grande romanziere trovò simbolo più semplice e profondo della miseria spirituale, e la significò in un più originale fantasma. Tutto passa, e le ombre dileguano come le figure: tutto stanca, anche la bellezza che ci accendeva le pupille, anche l'amore che ci sollevava nella speranza della felicità, anche la gloria che ci prometteva la tirannia del comando nella solitudine della ammirazione.
Ogni vino più puro lascia una goccia fecciosa nel fondo del bicchiere: ogni illusione ci domanda il proprio prezzo in un disinganno; la donna che pareva il fiore della nostra vita, non può diventarne il frutto; la ricchezza, che era un frutto, maturando si guasta, e guasta quasi sempre anche la nostra anima.
E allora come un pellegrino, che la strada ha ingannato ed esaurito, l'anima cerca tra le ombre cadenti della sera, mentre il pianto della rugiada inumidisce già le ciglia dei fiori e gli uccelli si gittano spauriti gli ultimi saluti dalle frondi, qualche cosa o qualche figura, alla quale domandare un conforto di compagnia nella notte imminente. Accade per tutti così: siamo tutti dei naufraghi, che perdemmo la riva e la nave: siamo tutti degli esuli dalla giovinezza, che ci trattò come Firenze fece con Dante: siamo tutti dei vinti, che la sconfitta dimenticò sul campo di battaglia.
Come quel vecchio patrizio veneziano, ritrovato da Balzac dentro la propria fantasia di creatore, e che, stanco dell'antico palazzo troppo pieno di memorie, si era rifugiato in un bugigattolo, e gittando alle più fresche ed illustri cantatrici il proprio danaro non trovava l'ultima consolatrice sensazione che nell'accordo di due violoncelli, tutta la gente, che dura e non può anco rivivere, cerca in un'unica sensazione un riparo e una stazione alla vita. Gli altri le chiamano manie, e sono invece avanzi di abitudini, frammenti di una qualche speranza o di una fede, o di un vizio o di una virtù. Perchè bevono così i vecchi bevitori? Domandatelo a Baudelaire. Perchè le etère invecchiate riparano in chiesa? Perchè le bigotte si nascondono quasi in una sola e solitaria devozione?
Naufraghi e naufragi: bisogna illudersi ancora e sempre, sino all'ultimo momento, e anche dopo, giacchè questa necessità di speranza e di fede varca il limite pauroso e s'avanza per cieli ignoti, dietro fantasmi inconoscibili, all'accenno di un raggio arcano, all'eco di una voce anche più misteriosa. Qualunque sia l'essenza e il segreto della musica, questa arte suprema dello spirito, che parla ultima in un linguaggio intraducibile; comunque i suoi ultimi grandi tiranni abbiano potuto fantasticare ed errare chiedendole la rivelazione del dramma ed imponendole le necessità pittoresche della descrizione, questo almeno rimane ben certo che nel nostro tempo nessuna arte è così universale come la musica e in essa niente e nessuno più invocato ed amato di un cantante.
Quando Wagner, ingannando ed ingannandosi, per trasportare il dramma nell'orchestra riduceva il cantante a non esserne più che un istrumento, il mondo applaudiva Wagner e decuplicava le paghe ai più illustri tenori, pagando in perle e in diamanti i soprani, ai quali popoli e re s'inchinavano; i teatri soltanto erano convegni davvero pubblici, mentre accademie ed esposizioni apparivano, quali erano, avanzi di scuole e preparazioni di mercati. Nel secolo decimonono la Patti ha regnato meglio di qualunque imperatrice, e Masini passò nella luce abbacinante di un lungo trionfo, dietro al quale, oggi ancora, palpitano le più intense memorie, risorgono le illusioni dei cuori invecchiati e delle fantasie deserte.
Soltanto la voce umana ha questo potere misterioso di darci al tempo stesso l'oblio ed il sogno; nessun istrumento dal petto di legno o dalla gola di metallo, solitario o sostenuto da altri, può, come la voce umana, rivelare le ineffabili emozioni della nostra anima, sollevandoci nel mistero superiore alla nostra vita, o tuffandoci negli abissi, dai quali il pensiero si ritrae o risale muto. Oggi ancora che le paghe dei cantanti gloriosi sono così diminuite, nessuna assemblea orchestrale è pagata come un tenore: perchè? Voi ascoltate attentamente un'orchestra, e sognate invece dietro la voce di un tenore. E non il suo talento di attore, quasi sempre fin troppo scarso, non la perfezione tecnica della sua gola, agiscono sul vostro spirito destandone i sogni, che s'involano lungi tra ombre e trasparenze, tra fantasmi e simboli, tra brividi di stelle e di lagrime, ma è la sua voce soltanto, che desta echi misteriosi nel nostro cuore; è il suo accento che ci scuote coi brividi dell'inesprimibile; è la sfumatura di una sua sillaba, forse di una vocale, che ci avvolge e ci rapisce, dentro un velo di luce o di ombra, lungi dalla vita che opera, nella vita che sogna, lontano e in alto, dove le stelle ascoltano guardando e le preghiere salgono più lievi che l'aroma dei fiori.
E voi avete sognato. Chi era quel tenore? Che importa saperlo, se egli stesso non sa il proprio potere e probabilmente lo suppone in qualche abilità acquisita collo studio?