Il bacio della contessa Savina. Caccianiga Antonio

Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio


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un'insormontabile ripugnanza a confidarmi ai domestici, e a comprometterla. Volevo qualche cosa che non lasciasse traccia, un cenno davanti a Dio, senza altri testimoni.

      Ho deciso finalmente, dopo maturo esame, di attendere il suo ritorno, e di mandarle un bacio appena si presentasse alla finestra. E pensava: se mi renderà il bacio, nessuno a questo mondo potrà mettere in dubbio il suo amore. Allora il mio dovere sarà fissato, — meritare la sua affezione, ed esserle fedele ad ogni costo. Siamo giovani entrambi e possiamo aspettare; e col tempo e col lavoro si possono fare miracoli. Si videro tanti poveri che coll'ingegno e col pertinace volere raggiunsero le più cospicue posizioni sociali, che il ritentarne la prova non può dirsi pazzia. Se mi ama davvero, ho trovato il punto d'appoggio che domandava Archimede, e posso muovere il mondo!...

      Se non mi ama, avrò almeno la forza di partire, e di secondare i progetti di mio zio. Se non mi ama, che m'importa in quale angolo devo portare le mie ossa? — Contessa Savina Brisnago, ecco un uomo in vostra balìa; potete salvarmi od uccidermi. Se i vostri occhi non mi hanno ingannato, voi mi amate. Se mi amate, vi domando un bacio a dieci metri di distanza... ma un vostro bacio darebbe la vita anche attraverso l'Oceano! Ritornate dunque alla vostra finestra, e decidete della mia vita.

      Alla mattina seguente mi affacciai al balcone, ma le imposte del palazzo Brisnago erano sempre chiuse e le mie invocazioni disperse al vento.

      Così passarono molti giorni. Mio zio mi osservava e taceva, io dissimulava i miei pensieri, e si tirava avanti, egli per lasciarmi agio a riflettere ai miei casi, io aspettando nell'ansia dei timori e delle speranze il momento fatale che doveva decidere del mio avvenire.

      Finalmente una mattina essendomi alzato per tempo, vidi molte finestre aperte nel palazzo Brisnago. I domestici mettevano in ordine gli appartamenti, e tutto annunziava il prossimo arrivo.

      Quella giornata mi parve un lungo periodo di secoli, ogni minuto durava un anno, un anno di pensieri, di sogni, di progetti, d'entusiasmo e di pene! Guardavo l'orologio, e pensavo: forse ella sarà qui fra due ore, e sentendo al pari di me gli impeti di una passione che trabocca, che dopo lunga compressione domanda imperiosamente di espandersi, risponderà al mio bacio ardente con un bacio modesto, ma soave come il profumo d'un fiore suscitato dagli aliti estivi. Sentivo che quel rapido istante avrebbe bastato ad infondere il genio nell'anima più fredda, era il soffio creatore che dava vita alla mia creta, m'innalzava al disopra degli altri mortali, m'illuminava di quella luce divina che eguagliando l'uomo agli Dei, lo rese talvolta capace di creare di quelle opere che eccitano la meraviglia dei secoli. E progredendo su questa scala, colla accesa fantasia salivo fra le nuvole ove dopo i più strani pellegrinaggi finivo all'apoteosi!.. compiuto il sogno riguardavo l'orologio, e non erano passati che pochi minuti!.. ma dunque le lancette non camminavano?... sì, camminavano come i cavalli da nolo, mentre il mio cervello volava colla rapidità dell'elettrico.

      Se fossi morto quella sera mi sarebbe parso di aver vissuto una lunga esistenza. Dunque tutto è relativo nella vita, il tempo e lo spazio, la miseria e la ricchezza, le tenebre e la luce.

      Finalmente uno scalpito di cavalli, un rumore di carrozze che si arrestarono mi scossero dal letargo. Mi slanciai alla finestra, e vidi i grandi cancelli del palazzo Brisnago che si aprivano, e gli equipaggi che entravano. Risoluto all'atto solenne, mi appoggio al balcone ed aspetto. Pochi istanti dopo odo un rumore di porte, e vedo un'ombra lontana che si avanza... era lei!... — Ancora col cappellino sul capo veniva sorridente alla finestra, a darmi il saluto del ritorno. Ebbe appena il tempo di vedermi, che io deponendo un bacio ardente sulle estremità delle dita della mano diritta raccolta davanti le labbra, glielo gettava in faccia, come un oggetto che potesse realmente caderle sul viso. Essa spalancò gli occhi sbalordita, e fuggì....

      La sua repentina scomparsa mi rese immobile per qualche tempo, e quasi asfissiato nel vuoto, e cieco come un uomo, che abbagliato dalla luce istantanea, rientra immediatamente nelle tenebre.

      Illusioni, speranze, amore, tutto era svanito: la vita mi sembrava un'ironia atroce, un inganno, un supplizio!

      Mi trascinai fino ad una sedia, caddi colla testa sul tavolino e le braccie penzoloni. Non so quanto tempo rimanessi in quella posizione, ma quando alzai la testa era notte.

      Presi una risoluzione assoluta, corsi dallo zio, gli annunziai l'arrivo della famiglia Brisnago e la mia partenza per l'indomani.

      Mi applaudì, e s'accinse subito ad apparecchiarmi le lettere di raccomandazione, mentre io corsi ad assicurarmi la vettura, ed a prendere le necessarie disposizioni.

      Alla sera tutto era pronto, Veronica aveva fatto la mia valigia, e collocato in un baule i libri, le carte, i vestiti e quanto mi apparteneva. Mio zio mi consegnò il denaro necessario al viaggio ed al mio assetto, con le lettere pel parroco, don Vincenzo Liserio, ed il signor Nicola Bruni, aggiungendo istruzioni e raccomandazioni infinite, sugli affari della casa e dei campi, e sulla mia condotta morale. Poi colle lagrime agli occhi mi diede la sua benedizione e mi congedò, non volendo alla mattina alzarsi prima dell'alba, per non rompere tutto l'ordine della giornata.

      Io gli baciai la mano teneramente, assicurandolo della mia riconoscenza per tutti i benefizi ricevuti, della mia ferma volontà di camminare sulla via dell'onore, e lo lasciai balbettando le ultime parole strozzate dall'emozione.

      Mi coricai colla testa sconvolta, e piansi tutta la notte. Alle quattro del mattino accesi il lume e mi alzai. Presi la medaglia che stava da tanti anni appesa al mio letto, le diedi un bacio, e mi parve di sentire la benedizione di mia madre. Mi posi in tasca quella santa reliquia con religioso rispetto. Era il solo retaggio di famiglia del povero orfano, che ritornava a trovarsi solo sulla terra!...

      Apersi il balcone quando le stelle incominciavano ad impallidire alla luce del crepuscolo. La finestra dicontro era chiusa; la contemplai lungamente, e sentivo di non poter distaccare qualche cosa di me stesso, forse un lembo dell'anima che rimaneva attaccato a quel palazzo.

      Intanto ella dormiva certamente d'un sonno tranquillo sotto le candide cortine del suo letto, e mentre nell'alcova elegante aleggiavano dei sogni color di rosa, il povero orfano, ferito mortalmente, abbandonava il tetto ospitale, e andava incontro all'ignoto, disingannato di quegli sguardi fatali che gli promettevano il cielo, e poi lo abbandonavano ramingo sulla terra.

      Veronica entrò nella stanza, portandomi del caffè e latte caldo, del pane abbrustolato e del burro, volendo che non partissi digiuno. Cure affettuose d'una povera donna che non mi doveva nulla, e che pure ebbe sempre tanti delicati riguardi per me.

      Non poteva staccarmi dalla mia cameretta, muto testimonio di tanti sogni, e girava gli occhi intorno, quasi salutando quelle pareti che per tanti anni mi avevano ricoverato, e veduto crescere, amare, soffrire e vivere d'illusioni.

      Ma essendo giunta da un pezzo la vettura, dovetti risolvermi, e scendere le scale, accompagnato dalla Veronica che singhiozzava. Giunto alla porta, mi fu impossibile dirle alcuna cosa, le strinsi la mano, essa mi gettò le braccia al collo.... ci siamo baciati piangendo e partii.

      Attraversando le vie di Milano, sentivo di amare teneramente tutte le case, i selciati, gli alberi, i banchi di pietra della mia città; li conosceva tutti, mi ricordavo di averli veduti tante volte e mi pareva impossibile di poterli lasciare; ma ero trascinato dal destino, rappresentato da una vetturaccia da nolo e da un rozzone coi sonagli.

      Pochi momenti dopo, essendo uscito dalla città ed avviato per la strada postale da Milano a Como, mi nicchiai nell'infausto veicolo, e chiusi gli occhi per meditare con pieno raccoglimento sulle mie sventure.

      Non conosco l'intensità del dolore che accompagna il viaggio degli esiliati in Siberia, ma non posso persuadermi che le loro ambascie giungano a superare gli affanni che ho provati in quel giorno. Al pari di loro io perdeva la patria, la famiglia, le affezioni e le speranze della vita, e mi avanzava verso le fredde regioni dell'esilio e della solitudine.

      Era il mio primo viaggio, non essendo mai uscito da Milano che a piedi e per poche miglia. Altre volte l'idea d'un viaggio mi avrebbe acceso d'entusiasmo, allora invece mi metteva spavento; le montagne della Valtellina mi si presentavano alla mente come l'estremo lembo del mondo; chiuso nel mio dolore io non sentiva nemmeno il bisogno di osservare


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