Le vergini delle rocce. Gabriele D'Annunzio
Non si può avere maggior signoria che quella di sè medesimo.
Leonardo da Vinci.
E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.
Lo stesso.
Domati i necessarii tumulti della prima giovinezza, battute le bramosie troppo veementi e discordi, posto un argine all'irrompere confuso e innumerevole delle sensazioni, nel momentaneo silenzio della mia coscienza io aveva investigato se per avventura la vita potesse divenire un esercizio diverso da quello consueto delle facoltà accomodative nel variar continuo dei casi; ciò è: se la mia volontà potesse per via di elezioni e di esclusioni trarre una sua nuova e decorosa opera dagli elementi che la vita aveva in me medesimo accumulati.
Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all'arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma: — Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. — E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s'accresce di bellezza e di dolore.
Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio: — O Socrate, componi e coltiva musica. — Allora appresi che l'officio dell'uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel corso della sua vita una serie di musiche le quali, pur essendo varie, sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l'impronta d'un solo stile. Onde mi parve che da quell'Antico — eccellentissimo nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo vigore — potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento.
Scrutinando sè medesimo e i suoi prossimi, colui aveva scoperto i pregi inestimabili che conferisce alla vita una disciplina assidua e intenta sempre in uno scopo certo. La sua somma saggezza mi sembra risplendere in questo: ch'egli non collocò il suo Ideale fuori della sua pratica quotidiana, fuori delle realità necessarie, ma ne formò il centro vivo della sua sostanza e ne dedusse le proprie leggi e secondo quelle si svolse ritmicamente negli anni, esercitando con tranquilla fierezza i diritti che quelle gli consentivano, separando — egli cittadino d'Atene, e sotto la tirannide dei Trenta e sotto la tirannide plebea — separando per deliberato proposito la sua esistenza morale da quella della Città. Egli volle e seppe conservarsi a sè medesimo fino alla morte. “Io non obbedisco se non all'Iddio„ voleva significare “Io non obbedisco se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera.„
Egli con mano ferma, artefice assai più raro di Apelle e di Protogene, riuscì a descrivere per una linea continua l'imagine integra di sè medesimo. E la sublime letizia nell'ultima sera non gli veniva dalla speranza di quell'altra vita ch'egli aveva rappresentata nel discorso, ma sì bene dalla visione di quella sua propria imagine che s'integrava con la morte.
Ah perchè non rivive oggi in qualche terra latina il Maestro che sapeva con un'arte così profonda e così nascosta risvegliare ed eccitare tutte le energie dell'intelletto e dell'animo in quanti gli s'accostavano per ascoltarlo?
Una strana malinconia mi occupava, nell'adolescenza, alla lettura dei Dialoghi, quando volevo raffigurarmi quel cerchio di discepoli avidi e inquieti intorno a lui. Ammiravo i più belli, ornati di più nitide eleganze, su i quali i suoi occhi rotondi e sporgenti — quei suoi occhi nuovi, in cui era una vista propria a lui solo — si posavano più spesso. Si prolungavano nella mia imaginazione le avventure dei forestieri venutigli di lontano come quel trace Antistene che faceva quaranta stadii al giorno per udirlo e come quell'Euclide che — avendo gli Ateniesi fatto divieto d'entrare in Atene ai cittadini di Megara e decretato per i trasgressori l'ultima pena — si vestiva di abiti muliebri, e così vestito e velato esciva dalla sua città in sul vespro, compiva un lungo cammino per trovarsi presente ai colloquii del Saggio, quindi all'alba riprendeva la sua via sotto la stessa larva pieno il petto di un entusiasmo inestinguibile. E mi commoveva la sorte di quel giovinetto elèo Fedone bellissimo che, fatto prigioniero di guerra nella sua patria e venduto a un tenitor di postriboli, dal luogo di vergogna erasene fuggito a Socrate, e aveva ottenuto per opera di lui il riscatto e partecipato alle feste del puro pensiero.
Pareva a me veramente che quel gioviale maestro vincesse di generosità il Nazareno. Forse l'Ebreo, se i suoi nemici non l'avessero ucciso nel fiore degli anni, avrebbe scosso alfine il peso delle sue tristezze e ritrovato un sapor nuovo nei frutti maturi della sua Galilea e indicato al suo stuolo un altro Bene. Il Greco aveva sempre amata la vita, e l'amava, ed insegnava ad amarla. Profeta e divinatore quasi infallibile, egli accoglieva tutte le anime in cui il suo sguardo profondo scoprisse una forza, ed in ciascuna sviluppava ed esaltava quella forza nativa; cosicchè tutte, investite dalla sua fiamma, si rivelavano nella lor diversità possenti. Il suo più alto pregio era in quell'effetto di cui l'accusavano i nemici: che dalla sua scuola — dove convenivano l'onesto Critone e Platone uranio e il delirante Apollodoro e quel gentil Teeteto simile a un rivo d'olio fluente senza strepito — escissero il molle cirenaico Aristippo e Critia, il più violento dei Trenta Tiranni, e l'altro tiranno Caricle, e il meraviglioso violator di leggi Alcibiade che non conobbe limiti alla sua licenza meditata. “Il cuor mi balza assai più che ai coribanti, quando io odo i discorsi di costui„ diceva il figliuolo di Clinia, leggiadra fiera coronata di edera e di violette, tessendo il più fulgido elogio con cui siasi mai deificato in terra un uomo, alla fine di un convito che dalla bocca del Sileno aveva raccolto la grande iniziazione di Diotima.
Or quali energie avrebbe stimolate in me un tal maestro? Quali musiche mi avrebbe condotto a trovare?
Primieramente mi avrebbe cattivato l'animo per quella eletta facoltà ch'egli possedeva di sentire anche il fascino della bellezza caduca e di distinguere con una qualche misura i piaceri comuni e di riconoscere il pregio che l'idea della morte conferisce alla grazia delle cose terrene.
Puro ed austero quant'altri mai nell'atto dello speculare, egli possedeva tuttavia sensi così squisiti che potevan essere quasi direi gli artefici eleganti delle sue sensazioni.
Non v'era nei banchetti — secondo Alcibiade ottimo giudice — alcuno che sapesse goderne com'egli sapeva. Sul principio del Simposio di Senofonte egli contempla con gli altri in lungo silenzio la perfetta bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali: “Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio più molle del tuo?„ Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di musica e maestro di stile.
Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano e ancor mi commuove; perocché la mia anima talvolta ami allentare la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare, del continuo perire.
Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrompe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi stupiscono i momenti estremi