Il Libro Nero. Anton Giulio Barrili
— Bene! benissimo! — gridarono tutti, e ripeterono in coro, siccome avevano fatto per l'altre strofe:
Sulla terra è l'uom felice
Fin che regni in terra amor.
— Questo conte Folco era un uomo felice davvero — disse Ugo, in quella che si toglieva dal collo [pg!31] la sua collana d'oro, per cingerne il suo paggio prediletto. — Felice davvero! e a tutte le sue venture s'aggiunge questa, di essere cantato da sì gentile poeta. Che ne dite voi, messer pellegrino?
— Che avete ragione, per quanto si riguarda al poeta. I suoi versi sono graziosi, e meritano il presente che avete sì nobilmente fatto all'artefice. Ma il concetto, con sua e vostra licenza, non mi par giusto del pari.
— Oh! oh! — sclamò Fiordaliso, turbato nel suo trionfo poetico.
— Non c'è oh che tenga! soggiunse il pellegrino. — Recatevelo in santa pace; voi non avete, messer Fiordaliso, fatto prova di molta filosofia; laonde io mi fo' lecito di consigliarvi a studiare qualche buon libro intorno a questa materia, e in particolar modo il libro della vita, che le Sacre Carte hanno simboleggiato nell'albero della scienza del bene e del male.
— Fiordaliso, tu se' spacciato! — gridò Ottone di Cosseria.
— Periisti! — aggiunse il latinista Benedicite, dal fondo della tavola.
— Orbene, — disse, dopo una breve sosta il poeta, messo in puntiglio — correggete voi con la vostra scienza, messer pellegrino, quel che c'è di errato nei miei grami concetti!
— E perchè no? Tengo la giostra. Date qua il vostro liuto e vedremo di cavarne un costrutto. —
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CAPITOLO III.
Come il biondo Fiordaliso fu vinto in tenzone poetica, e del rammarico ch'ei n'ebbe.
Allora, in mezzo alla aspettazione universale, lo strano ospite di Roccamàla pose le mani sullo stromento di Fiordaliso, che più non parve lo stesso. Le sue dita, adunche come gli artigli d'un falco, cavarono dalle corde una tempesta di suoni, striduli e sto per dire non umani; strano preludio che fece correre un brivido di terrore per l'ossa a quella nobile udienza.
— O come suonate voi, messer pellegrino? — chiese Enrico Corradengo.
— Come il Paganini.
— E chi è il Paganini? — dimandò un altro della brigata.
— Un gran trovatore, messeri, un gran trovatore.
— E.... — si provò a dire Fiordaliso, che udiva toccato il liuto da mano maestra e già si sentiva una spina nel cuore, — e vi ha insegnato egli?....
— No, io a lui; — rispose asciuttamente il pellegrino.
— Ah! noi siamo dunque al cospetto di un maestro.... — disse il conte Ugo.
— Oh, questo poi no, messer lo Conte! Pizzico un tratto, per mio logorare, ma non la pretendo a maestro nella gaia scienza, come fa qualcun altro. [pg!33] Ora, ecco, magnifici messeri, vi canterò la ballata dell'uom felice, la ballata di Giobbe.
— Vuol essere allegra! — disse mastro Benedicite fra i denti; e frattanto di sotto alla tavola fece il segno della croce, imperocchè, dopo quel preludio indiavolato, gli era tornata la paura in corpo.
Per tutta la comitiva si fece un gran silenzio, appena il pellegrino ebbe annunziato il titolo della sua ballata. E l'ospite di Roccamàla, con voce ingrata, ma che costringeva ad ascoltare, così diede principio al suo canto:
Era su in alto splendida festa,
Chè avea l'Eterno corte bandita.
Calici in mano; corone in testa;
Tocche le cetre da rosee dita.
Tutti raccolti nel ciel natio
Eran gli alati figli di Dio.
— Il cominciamento è bello! — gridò Ansaldo di Leuca. — Pare una copia della nostra brigata, salvo che noi non abbiamo corona in testa e non siamo figli di Dio, e voi non avete le dita rosee, messer pellegrino! —
Il cantore rispose alla celia di Ansaldo con un sorriso che mise in mostra trentadue denti nitidi ed acuti come quei d'una sega, e, ripigliato l'arpeggio, prosegui:
C'eran tutti, chè in lieto accordo
Venner da' chiari regni e da' bui;
E quell'astuto, cui non fu sordo
D'Eva l'orecchio, c'era pur lui,
Da Dio colpito già d'anatema,
D'alta scienza mastro Aporèma.
— Aporèma! È un nome saracino? — esclamò Ansaldo di Leuca.
[pg!34] — No, — soggiunse Corradengo — un nome greco.
— Greco, o saracino, — borbottò mastro Benedicite, — gli ha da essere sinonimo di Satanasso. —
Il pellegrino rispose con un altro dei suoi tetri sorrisi, e continuò cantando:
Spirto del dubbio, spirto che indaga,
Che viver sdegna contento al quia,
Nè di fallaci larve s'appaga,
E l'uom da' stolti sogni disvia.
Com'ei da sezzo giunto s'assise,
Lo vide il vecchio Sire e sorrise.
— Che vuoi Satanno? — Buon sire Iddio,
Un posto al vostro gaio banchetto!
Vostra fattura, padre, son io,
Sebben m'abbiate poi maledetto,
E qual maestro lasciato all'uomo
Dopo la biblica scena del pomo.
— Sì veramente, spirto malnato,
E aver ciò fatto mi seppe reo!
Ma non hai tutti pure ingannato....
Ti sfugge il giusto prence Idumeo....
— Ve' gran fatica! Voi lo volete....
Ma lo lasciate solo, e vedrete! —
— Sì, tenta! io tolgo da lui la mano....
Ma inver sovr'esso fai mala prova,
— Perchè? fors'egli fuor dell'umano,
Oltre la terra sue gioie trova?
Hollo a far tristo, buon sire Iddio,
O ch'io, Satanno, non son più io! —
Qui il pellegrino fece una sosta, che nessuno degli astanti volle turbare co' suoi ragionari, tanto erano ansiosi di udire la continuazione. E questa non si fece attender molto, poichè, dopo un altro arpeggio più cupo del primo, e con voce più stridula, il cantore di Aporèma venne alla seconda parte della ballata.
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Il vecchio di lassù tenne la fede,
Perchè sillaba sua non si cancella,
E l'uom felice in potestà gli diede.
Ratta sui vanni allor d'atra procella,
Scende sventura all'idumee pendici,
Strugge i campi, gli armenti e le castella.
Ve' subito oscurarsi i dì felici
Del prence, e ve' dalle dolenti case
Ad uno ad uno disparir gli amici!
Nè