Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis
non ha mai avuto l’impressione che potesse esserlo… che lo fosse?».
«È ridicolo chiedermelo! Se avessi avuto una tale impressione, lo avrei avvertito… lo avrei difeso!».
«E suo marito?».
«Che c’entra mio marito?» esclamò la donna e ancora una volta la sua voce suonò piena di sarcasmo sprezzante.
«Suo marito era amico del senatore. Frequentava assiduamente la casa di lui… Può sapere qualcosa… può avere formulato qualche ipotesi… che non ha detto ad altri, ma che potrebbe aver confidata a lei, sua moglie…».
«No. Non lo ha fatto. Del resto, io sono sofferente da vari giorni… e l’ho lasciato quasi subito… dopo la tragedia… per venir qui».
«Capisco! Mi perdoni…».
Lei chinò la testa, per congedarlo. Evidentemente si era alzata, per fargli intendere che il colloquio doveva terminare.
Ma lui non si mosse. Sembrava assorto. Mormorò: «Uno strano… Un inspiegabile delitto…».
Alzò gli occhi per fissarla. La donna continuava a tacere.
«Non un delitto di teppa… Non gli hanno rubato nulla… Una vendetta, certo!… E lo hanno colpito alle spalle…».
Fece una pausa. Gli occhi di lei rimanevano inespressivi. Non avevano neppur più quei loro lampi terrorizzati.
«… E perché proprio in una libreria? Giacché poi qualcosa hanno effettivamente rubato… Un libro da uno scaffale… Un libro capisce?… Ci sarebbe da credere che abbiano ucciso per quel libro…».
Adesso, la donna lo guardava con concentrazione, come se si sforzasse di capire. Una domanda le salì alle labbra, ma non la formulò.
«Ed era un libro d’amore osceno… un libello infamante… La Zaffetta attribuita a Pietro Aretino…».
Non terminò. La donna era caduta di schianto, lunga distesa in terra, con la testa tra il verde di un’aiuola e il corpo sulla ghiaia.
R
Capitolo ventesimo
Le donne sono sei
Dovette afferrare la donna caduta e portarla nell’interno della villa.
Depostala sopra un divano, chiamò la cameriera, che accorse spaventata a quella voce di un uomo sconosciuto.
Le versò fra le labbra qualche goccia di cognac; ma teneva i denti serrati come una morsa e il liquido le corse dagli angoli della bocca sul mento e sul petto.
Appariva rigida come un cadavere e, se non avesse respirato con un rapido ansimo rumoroso, c’era da crederla morta.
Non sapeva che fare. La cameriera, una bruna procace, lo guardava sospettosa, non comprendendo come e perché si trovasse lì quell’intruso.
Dopo un silenzio, durante il quale la ragazza si era contenuta a fatica, lo interrogò quasi con violenza: «Che cosa le ha fatto? Chi è lei?».
De Vincenzi alzò le spalle.
«Vada a chiamare un dottore. Ma in fretta. Quanto ci mette ad andare in paese e tornare?».
La ragazza di primo impeto, abituata a obbedire, si avviò quasi correndo verso la porta. Ma sulla soglia si fermò e si volse a guardarlo, indecisa. Doveva lasciar solo con la sua padrona, inerte e senza conoscenza, uno sconosciuto, capitato nella villa chi sa da dove e perché?
«Andate!» ordinò lui, con voce dura e dandole del voi. «Qui rimango io!».
E quella andò.
De Vincenzi guardava la donna distesa. Doveva essere già ammalata. O il colpo ricevuto era stato troppo forte.
Ma perché, al titolo di quel libro, ella s’era schiantata come se avesse ricevuto una mazzata sulla testa?
Tutte le ipotesi si presentavano possibili.
Si chinò a toccarle leggermente la fronte e la sentì di ghiaccio.
Il dottore chissà quando sarebbe arrivato!
Cominciò a guardarsi attorno. La sala aveva pochi mobili, ma belli. Era come divisa in due parti da un arco, lungo la volta del quale correva una pelle di serpente, argentea e nera. Nel caminetto, tra gli alari, si vedeva un mucchio di cenere recente: dovevano accenderlo alla sera, che lì sul mare, col calar del sole, la temperatura si abbassa repentinamente.
Adesso, il sole c’era. Entrava sino a metà camera. E fuori tutta un’orgia di colori festosi, accesi. Le aiuole erano rosse, gialle, bianche, turchine.
Quella donna, a cui soltanto l’ansimo convulso dava vita, aveva i capelli d’oro e la vestaglia azzurra.
De Vincenzi si avvide, nel tornare a guardarla, che la vestaglia si era un poco aperta, scoprendo un seno. Gliela chiuse dolcemente sul petto. Poi si pentì d’aver lo fatto, come se quell’atto fosse stato per lui la confessione di un turbamento.
Si udirono passi e voci ed egli si allontanò in fretta dal divano.
Entrò il dottore, seguito dalla cameriera.
Anche il sanitario, data un’occhiata alla donna, lo scrutò come per chiedergli chi fosse.
Era un uomo magrissimo e ossuto, che doveva aver fatto la guerra, perché recava una lunga cicatrice sulla fronte e il distintivo glorioso della mutilazione all’occhiello.
Si chinò sulla donna svenuta, le aprì le labbra, le sollevò le palpebre con un movimento esperto del pollice.
«Ho visto» disse, rialzandosi. «Acqua bollente e alcool. Le farò un’iniezione».
La cameriera sparì a quell’ordine, che era dato a lei.
De Vincenzi si teneva sempre in disparte.
«Ha avuto una forte commozione?» chiese il medico.
«Credo».
«Lei è un parente?».
«Un amico del marito».
«Ah! Il dottor Marini, eh?».
Precisamente.
«Avrebbe dovuto avvertirmi che mandava qui sua moglie, ammalata… Fra colleghi…».
«Crede sia grave?».
«No. Ma forse le si manifesterà la febbre… probabilmente assai forte… Ne avrà per qualche giorno».
Tornava la cameriera con l’acqua e l’alcool. Il dottore trasse dalla tasca una piccola scatola lucida.
De Vincenzi disse a voce alta: «Mi ritiro, perché debbo partire».
«Pensa lei ad avvertire il marito?» chiese il medico, guardandolo con leggera meraviglia.
«Debbo farlo? Se fosse possibile evitargli altre preoccupazioni… Egli ne ha molte in questo momento…».
«Non è cosa grave in fondo e la signora è giovane e sana…».
«Appunto! È meglio non impressionarlo. Non gli dirò nulla. Buon giorno!».
Il medico, già chino con la siringa sul corpo della signora, non rispose.
De Vincenzi uscì e discese a lunghi passi saltellanti pel viottolo pieno di buche e di franamenti.
Alla stazione, s’informò dei treni pel ritorno. Che cosa sarebbe rimasto a fare lì? Cercar di strappare alla signora Marini il suo segreto — qualunque esso fosse — era impossibile. Ovvero, avrebbe dovuto precipitar le cose, procedendo a un interrogatorio in regola, «da istruttoria». Non voleva. L’esito sarebbe stato più che dubbio e lui avrebbe dovuto rinunciare all’unica speranza che aveva di cogliere il