Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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È una mia idea… non è fondata su nulla di particolare e di visibile… soltanto alcune lucentezze del cuoio della valigia… come se fosse stato strofinato… Ma posso sbagliarmi!

      — Vada avanti, Kruger! Dica questa sua idea!

      — Ebbene, cavaliere, ho l’impressione… che l’uomo che ha agito qui dentro portasse guanti di lana… Sa? Quei grossi guanti neri…

      — È un’idea! – fece De Vincenzi, ma dal modo con cui guardò il giovane si capiva che lo ammirava. Un ragazzo di valore, quello lì, con tutta la sua timidezza da collegiale.

      — In quanto all’ora della morte… Poiché lei certamente me la chiederà… posso dirle che deve essere stato ucciso tra le dieci e le undici di iersera… Il cadavere è già quasi rigido, eppure la temperatura della stanza, con la finestra chiusa, doveva essere abbastanza alta. Non possono esser passate meno di dodici o tredici ore…

      Guardò l’orologio.

      — Sono le undici e mezzo – e si affrettò ad afferrare la sua busta nera, che aveva deposta sopra una seggiola. – A rivederci! Mandi subito anche questo cadavere all’Obitorio… Domani avrò da divertirmi!…

      Sulla soglia si volse.

      — E procurate di non farmi correre per un terzo morto… Due in un giorno dovrebbero bastare, no?

      Scomparve, richiudendo la porta dietro di sé.

      De Vincenzi guardò ancora l’uomo ucciso. Era venuto dall’America a farsi ammazzare a Milano! Se non altro, questo qui, non doveva aver sofferto; lo avevano ucciso nel sonno.

      Sentì bussare alla porta e disse avanti. Apparve per primo il cameriere, a cui seguivano la cameriera e il facchino. La cameriera, quando vide che sul letto c’era ancora il corpo dell’ucciso, volle indietreggiare. Era una donna di una certa età, coi capelli quasi bianchi sotto la cuffietta di pizzo. Il facchino la trattenne.

      — Venite avanti – ordinò De Vincenzi; ma soltanto il cameriere fece un passo verso di lui.

      — Cominciamo da voi, allora. Come vi chiamate?

      — Antonio Olmi.

      — Di dove?

      — Bergamo.

      — Siete stato voi a scoprire il corpo, stamane?

      — No… lei… – e indicò la cameriera, che s’era coperto il volto con le mani.

      — Che cosa sapete, voi?

      — Niente. Ieri mattina ho portato il caffè in camera a questo signore… Si stava facendo la barba e non m’ha guardato neppure, dicendomi: «Posate lì». Questo è tutto quello che so di lui. Quando ho veduto Palmira entrare nella stanza del servizio tutta sconvolta, le ho chiesto che cosa avesse e lei mi ha detto che il numero 143 era morto. Ma credeva a una morte naturale e soltanto poco fa abbiamo saputo che c’era la polizia e che si trattava di un assassinio…

      — Venite avanti voi, adesso… Fatevi coraggio! Un morto è un morto e mettono più paura i vivi dei morti!

      — Oh! – gemette la donna, scoprendosi il volto. – Dice bene lei! Ma se avesse ricevuto il colpo, che ho avuto io questa mattina!…

      — Raccontatemi.

      — È stato il destino a volere che fossi proprio io a far la scoperta!… Alle otto circa, ho sentito suonare il campanello del telefono interno. Era il portiere che mi dava le «sveglie». Ho cominciato a prendere i numeri, ma erano tanti. «Tutto il piano, insomma?» gli ho detto, per far più presto. «Sì, tutto il piano» mi ha risposto quello. Si vede che credeva che tutte le camere di questo piano fossero occupate dalla carovana ed era appunto la carovana, che aveva messo la sveglia alle otto… Allora, ho cominciato a picchiare a tutte le porte e finalmente sono giunta anche a questa. Picchia picchia, non rispondeva nessuno. Siccome so che i direttori delle carovane vogliono vedere tutti presenti nel vestibolo, quando debbono muoversi, e s’impazientano e se la prendono con noi se ne manca qualcuno, ho pensato che questo qui avesse il sonno più duro degli altri e ho aperto la porta. La stanza era al buio. Ho scorto una figura sul letto e ho sentito un odore acutissimo, come di alcool… uno strano odore, però. Mi son detto: «Questi inglesi! Certo, questa notte si è ubriacato e s’è messo a dormire tutto vestito». Sentivo la nausea salirmi alla gola… doveva essere quell’odore… Ho chiamato: «Signore! Signore!»… Alla fine, ho acceso la luce. Subito mi sono accorta che aveva il volto coperto dall’asciugatoio… Certo si sente male, ho pensato, e mi sono avvicinata al letto. Ho scosso l’uomo. Ho sollevato l’asciugatoio… Era pallido da metter paura e immobile… Gli ho toccato una mano e l’ho sentita di ghiaccio… Allora, mi son gettata nel corridoio senza più fiato, col cuore che mi batteva in petto… e ho chiamato Camillo…

      Indicò il facchino, il quale assentì col capo.

      — Io sono accorso… e ho capito subito che era morto… Non ci voleva molto! Ho trascinato via Palmira, che non si reggeva più sulle gambe, e ho avvertito il portiere e il direttore… Non so altro.

      De Vincenzi aveva ascoltato con attenzione. Era il racconto che si aspettava. Che cosa avrebbero potuto dirgli di diverso, quei tre?

      — Chi era di servizio iersera, su questo piano?

      — Io – rispose il facchino. – Fino alla mezzanotte.

      — E nessun cameriere o cameriera?

      — Dopo le otto, c’è una sola cameriera e un solo cameriere di servizio per tutti i piani. Si danno il turno. Ieri toccava a quelli del secondo piano.

      — Sicché su questo piano, c’eravate voi solo?

      — Sì.

      — E dove vi mettete, quando siete di servizio?

      — Nella nostra camera, in fondo a quell’altro corridoio. Lì c’è il quadro dei campanelli e, se qualche viaggiatore chiama, io son pronto.

      — E iersera non chiamò nessuno?

      — Fino alle undici, no. Poi ci furono due o tre partenze al terzo piano.

      — Naturalmente, dalla stanza del servizio voi non potete vedere chi sale e chi scende, chi entra nelle camere.

      — A meno che non esca nel corridoio…

      — Iersera non avete sentito alcun rumore, qualche scoppio di voci?

      — No… Però…

      — Però…

      — Poco dopo le nove sono venuto da questa parte… andavo nella camera 148 a prendere un paio di scarpe di una signora, che mi aveva ordinato di pulirgliele… Me lo aveva detto nel pomeriggio e io me ne ero scordato…

      — Ebbene?

      — Ebbene, passando davanti a questa camera, ho sentito un mormorio di voci… Indubbiamente, c’erano qui dentro due o più persone che parlavano. Ma io non avevo alcuna ragione per preoccuparmene…

      — Ed erano le nove?

      — Sì. Press’a poco. Ma le nove erano suonate di certo, perché io prendo servizio a quell’ora.

      — E quando siete tornato a passare davanti a questa porta, le voci?…

      — Si sentivano sempre. Io poi me ne sono andato nella mia camera e non sono tornato qui che poco prima di smontare, a mezzanotte. Tutto era silenzio e io ho spento una delle due lampade del corridoio e sono disceso.

      — Potete andare. Sì, anche voi due. Non allontanatevi, però, perché di voi avrà bisogno il giudice.

      I tre si affrettarono a uscire.

      De Vincenzi si affacciò all’uscio e chiamò Sani.

      — Telefona al giudice istruttore. È assai probabile che lo trovi in Tribunale, perché starà


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