Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis
nel corso di questa nostra vita mortale…
De Vincenzi acconsentì col capo. Perché tutte quelle premesse oratorie? In lui era soltanto l’abitudine alla predica, la preoccupazione di catechizzare?
E fissò il Cristo gigantesco, dietro all’uomo immobile adesso, con quel suo volto duro, patinato di un pallore caldo, che sembrava di metallo chiaro, pieno di riflessi agli zigomi.
— Prenda la storia per quel che vale e sappia anche dimenticarla, se del caso… Quando le ho detto che sapevo poco o nulla di Giobbe Tuama…
— …di Jeremiah Shanahan…
Gli lanciò un’occhiata quasi irosa.
— Come vuole!…Mi riferivo ai fatti che lo concernevano e che si erano svolti attorno a me… Il passato!… Non doveva riguardarmi, se Giobbe Tuama si era accostato al Signore…
— Già… La grazia mediante la fede!…
Ma perché sentiva quell’irresistibile bisogno di pungerlo, di provocarne le reazioni, perché si teneva contro di lui, pronto sempre a discutere?
L’altro mostrò di non rilevare l’interruzione.
— Le ho detto che fu nel 1919 che l’irlandese venne a Milano o per lo meno fu in quell’anno che io lo conobbi e che lui entrò nell’orbita dei nostri fedeli. Non sapevo nulla di lui in quell’epoca, se non che era nato e vissuto fino allora in America… I suoi genitori, emigrati dall’Irlanda nel Michigan dovevano essere morti e per lo meno fu questo che egli mi disse… Faceva vita appartata e non mi risultò che avesse una professione o un mestiere definiti… Ma ben presto mi accorsi che si era legato d’amicizia con un altro americano di origine irlandese…
— Beniamino O’Garrich…
— Già…
— E costui da quanto tempo si trovava a Milano?
— Non so con precisione… Quando io, dopo aver fatto la guerra nelle Fiandre, venni a stabilirmi a Milano…
— E perché venne a stabilirsi a Milano, lei?
L’uomo sollevò un poco le sopracciglia, lucenti e regolari come due pennellate di turchino di Prussia.
— Crede che sia suo diritto interrogarmi anche su quel che riguarda me solo?
Infatti! Adesso lo vedeva: erano proprio turchini i riflessi, che patinavano stranamente il volto del Pastore, ai colori del quale era servita la tavolozza di Zuloaga…
De Vincenzi fece un gesto vago. Poteva esser di scusa. Era certamente d’indifferenza. Come avrebbe potuto insistere?
— Venni a Milano… presi a reggere questa Chiesa… E Beniamino O’Garrich vi apparteneva già… Lo riconobbi animato da sincero fervore religioso… si dimostrava pronto e servizievole… Mi valsi di lui. Noi abbiamo bisogno di fedeli, che si adoperino a diffondere il verbo… Ma anche soprattutto di uomini adatti alle mansioni delicate e pur pesanti… Diedi a O’Garrich l’incarico della diffusione del controllo della buona stampa… Giobbe Tuama si aggiunse a lui e io me ne dichiarai soddisfatto… Fu così che il nuovo arrivato, pressoché sconosciuto a tutti fino allora, venne notato e avvicinò la massa dei cristiani evangelici di questa nostra Chiesa milanese… Dopo qualche mese ch’egli si recava nelle case e negli uffici a propagandare i buoni libri e a diffondere il nostro giornale, mi pervenne una lettera… Debbo dichiararle subito che essa era anonima…
Aspettò un’interruzione da parte del commissario, ma essa non venne.
De Vincenzi lo ascoltava e nel medesimo tempo era tutto teso verso la porta nera, dietro alla quale lui era sicuro si nascondesse un mistero. La pausa di silenzio che fece il Pastore lo richiamò interamente a sé ed egli si scosse.
— Era anonima – riprese la voce del narratore, con maggior forza – e io non avrei dovuto prenderla in considerazione… Ma, prima di accorgermi della mancanza della firma, l’avevo letta… e non potei più interdirmi di meditare sul contenuto di essa… Riguardava Giobbe Tuama, appunto…
De Vincenzi continuò a fissarlo, tacendo. Il Pastore mostrò un leggerissimo senso d’impaccio. Quel silenzio inatteso lo infastidiva.
— Ebbene, mi si avvertiva che il nuovo nostro impiegato era un ex-coatto, il quale proveniva dalla prigione di Sing-Sing…
Fino allora s’era parlato del Transvaal. O per lo meno ne aveva parlato pel primo Beniamino O’Garrich. Poi era venuta la scoperta del corpo di Crestansen… Crestansen risiedeva a Detroit, nel Michigan… De Vincenzi ebbe quasi un sussulto. Poco prima, quando il Pastore gli aveva parlato dei genitori irlandesi di Giobbe Tuama aveva detto che essi erano emigrati nel Michigan… Miss Down era di Louisville, nel Kentucky… E adesso questo qui gli tirava fuori Sing-Sing… per un delitto o per un reato evidentemente commesso in America…
Ma continuò a tacere.
— Pesai con serena obbiettività l’importanza che quel fatto poteva avere per Giobbe Tuama nei confronti degli altri appartenenti alla Chiesa… Intanto, la lettera non diceva di quale delitto o reato si fosse macchiata la coscienza del nostro fratello… Occorreva che questo punto mi fosse chiarito… Chiamare lo stesso Tuama a rivelarmelo sarebbe stato certo il modo più retto… Ma confesso che cedei ai pregiudizi e alle restrizioni mentali, che sempre ottenebrano il cervello degli uomini… Non lo feci. Mi rivolsi, invece, a Beniamino O’Garrich, il quale mostrava di conoscere il suo compagno da lungo tempo… O’Garrich si dimostrò schietto con me e io non ebbi ragione alcuna, come non ne ho oggi, per dubitare che egli dicesse la verità… Aveva conosciuto Giobbe Tuama al Transvaal, dove erano stati impiegati nella medesima ditta… ma mi asserì che fin dal 1903 l’irlandese aveva lasciato la Colonia del Capo, per far ritorno in America… In appresso lui non ne aveva saputo più nulla, fino al giorno in cui lo aveva incontrato di nuovo a Milano… Nel 1919, vale a dire. Gli parlai, allora, della lettera anonima e del contenuto di essa… Non ne fu meravigliato oltre misura… Osservò soltanto: «il mondo è pieno di pericoli ed è facile anche per uno spirito retto cadere nelle imboscate, che ci tende il demonio!»…
Tacque e si mise a battere dolcemente con le dita sul tavolo.
De Vincenzi comprese che non sarebbe andato avanti, se non fosse stato stimolato.
Quella storia – a parte la rivelazione di Sing-Sing – non voleva dir gran cosa e non gli recava alcun lume. A quale scopo aveva voluto narrargliela? L’umidore ghiaccio della stanza si faceva sempre più intenso e penetrante. De Vincenzi, senza soprabito, si sentiva prendere dai brividi.
— Questo è tutto? – chiese con accento quasi ironico. – Aveva ragione lei! L’esser stato Giobbe Tuama un coatto non spiega il suo assassinio, né quello di Giorgio Crestansen…
E si alzò. Voleva uscire al più presto di lì dentro. Aveva la sensazione di perdere il suo tempo.
Perché mai il Pastore aveva voluto condurlo con sé e perché lo tratteneva tanto a lungo, mentre avrebbe potuto dargli quella notizia in quattro parole?
Per impedirgli di rimanere al banco delle Bibbie e di far parlare Beniamino O’Garrich? Ma non poteva credere che lui non sarebbe tornato a interrogarlo!
— La ringrazio, signor Pastore!…
Un leggero bagliore ironico lampeggiò negli occhi dell’uomo.
— Non vuole ascoltare il seguito?
— Ah! C’è un seguito?
— Fu lo stesso Giobbe Tuama che mi disse perché era stato condannato a tre anni di prigione…
— Per furto?
— O’Garrich gli aveva subito parlato della lettera anonima e l’irlandese mi chiese spontaneamente un colloquio… Mi doveva delle spiegazioni. Non avrebbe voluto rimanere sotto il peso del mio sospetto. Egli a Detroit…
— Dove? – gridò quasi