Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis
relatività esiste e voi avrete potuto conoscere qualche tipo più curioso di questo da me incontrato sul piroscafo, che mi ha portato in Egitto.
Perchè sono venuto in Egitto e proprio in agosto e proprio in questo mese e in questo anno, che segnano una data assai importante nella mia vita mortale? Ve lo dirò, naturalmente, vi dirò tutto di me stesso; ma occorre lasciarmene il tempo. Vivremo assieme queste mie avventure egiziane e voi imparerete a conoscermi.
Vedrete che sono coraggioso e che pure qualche volta la paura mi prende, – l’orribile paura fisica, che fa piegare le gambe e rende flaccidi i muscoli, – che sono onesto, nel senso etico della parola, e che d’altro canto so non rendermi schiavo degli scrupoli, quando le necessità della lotta siano tali da giustificare qualsiasi presa di posizione (gli eufemismi sono uno dei pochi conforti che la parola conceda); che ho un temperamento collerico ma che so a tempo e luogo dominarlo; che seguo gli istinti primari, i quali sono, come voi non ignorate, quelli di conservazione, di nutrizione, sessuale e gregario ma che li contempero agli interessi dell’anima collettiva. Vi accorgerete che ho doti assai notevoli di intelligenza e che ho una spiccata tendenza per il benessere materiale non disgiunto da un moderato spirito di sacrificio.
Come mi chiamo? Ah! sì. Di solito, crediamo di conoscere un individuo, quando egli ci ha dato il suo biglietto di visita e ci ha comunicato la sua professione. Se poi, per avventura, ha in tasca una fede di nascita e un porto d’armi, allora ci sentiamo perfettamente a posto, e siamo pronti ad affidargli il nostro portafoglio, la nostra consorte e i più riposti segreti delle nostre convinzioni politiche. Ebbene, non voglio derubarvi del portafoglio, nè far perdere ogni illusione sulla fermezza dei voti fatti dalla vostra signora quando vi ha sposati e neppure voglio valermi del vantaggio che avrei su di voi una volta conosciute le vostre debolezze di animali politici. Vi dico il mio nome, il mio nome di oggi , che questa storia s’inizia, ma non fatene un conto soverchio, anche perchè mi sarà facile cambiarlo. Mi chiamo Ippolito Domiziani. È un nome letterario, lo so. L’ho scelto apposta, dopo averne esaminati parecchi altri. E l’ho scelto a Napoli, quando si è trattato di doverlo scrivere con bella calligrafia gotica sulle righe lasciate in bianco del mio passaporto. Passaporto perfettamente regolare, rilasciatomi col nome in bianco, appunto perchè io potessi mettervene uno di mio gradimento, a seconda dell’opportunità. Questo vi dica che io sono venuto in Egitto con una missione di alta importanza politica. Quale sia questa missione, capirete in appresso.
Il nome da me scelto è italiano; ma il mio passaporto è rilegato in marocchino rosso e reca impresso in oro uno stemma e un’impresa che non sono quelli italiani. Posso dirvi anche che quello stemma è nobilmente sostenuto da un leone e da un liocorno, ma permettetemi di non dirvi a quale nazione appartenga, per una assai spiegabile delicatezza. Del resto, neppur io sono italiano. Ho molta simpatia per l’Italia – tanto che non avrei mai accettato di recarmici per le ragioni e con gli scopi con i quali sono venuto in Egitto – ma non sono italiano. Sono nato proprio sulla linea dell’Equatore. Oh Dio, non vi affermo che la cosa sia comune, ma è possibile. Tanto vero che a me è avvenuto di nascere in mare, proprio quando la nave tagliava l’Equatore. Orbene, questo fatto, che dovrebbe sembrar tale da non influire sul destino dell’uomo ai danni del quale si verifica, è invece di quelli che recano misteriosamente assembrate in sè conseguenze molteplici. Per rendersene conto, occorre pensare che quando una nave passa la linea equatoriale, tutti a bordo sono pazzi. Pazzi, intendo, nelle forme esteriori delle loro manifestazioni carnevalesche. Sicchè mia madre, nel mettermi al mondo, fu assistita da un medico che aveva una camicia da notte sul frak e una pentola di alluminio in testa, da una cameriera vestita da bajadera e dal proprio marito, mio padre, che faceva il pellerossa con un casco di piume multicolori e una zona di piccoli teschi di pantere e di iene attorno al ventre. Non vi sto a descrivere lo stupore mio nel trovarmi d’un tratto circondato da così disparati campioni umani. Ma esso aumentò, quando mi vidi immergere in una tinozza d’acqua tepida da un prete copto, assistito nella cerimonia del battesimo da uno spettrale rabbino, al quale si dovette impedire con la forza di procedere sul mio tenero corpicino innocente a una operazione mutilatoria, che, per quanto igienica, non trovava nelle idee conservatrici di mio padre e in quelle teneramente materne di mia madre, alcuna complice rispondenza. Allora, mi chiamarono John Robinson, nome perfettamente anodino e volgare e comunissimo nella libera Inghilterra, dove almeno la metà degli abitanti è libera appunto di chiamarsi John Robinson. Tanto vero che i miei amici, se ne avessi, mi chiamerebbero Robin, come io stesso mi chiamo nella intimità. Ma di quella mia nascita fuor di comune e di quel battesimo, io mi sono sempre di poi ricordato con qualche preoccupazione, per quanto essi abbiano indubbiamente influito sui miei gusti mutevoli e sulle mie abitudini, che da allora sono sempre rimaste alquanto, come dire?, carnevalesche, nel senso che non ho mai potuto trovarmi di fronte a un uomo, per importante e severo e nobile e altolocato che fosse, senza figurarmelo vestito da pellerossa con un casco di piume e una zona di crani belluini sotto l’ombelico. La quale tendenza a una visione comicamente macabra della società mi ha recato noie non poche, durante la mia permanenza in Inghilterra, paese di origine dei miei genitori, dove il comico non è apprezzato in giusta misura, se non nelle cerimonie ufficiali e nei discorsi che i ministri fanno alle due Camere.
Ma vedete! Avevo detto a me stesso e a voi, che vi avrei informati di quanto mi riguarda a tempo e a luogo e facendo giusto conto della economia necessaria allo svolgimento di questo racconto, e invece, ecco che vi ho già messi a parte delle mie origini! Bene: oramai quel che è detto è detto, e non sarebbe opportuno che io vi tornassi su, per aggiungere che ho adesso trenta anni, che sono biondo con una certa tendenza al rosso, e che ho consumati vari patrimoni in una vita di disordine materiale e morale – abbastanza piacevole, del resto – randagia per il mondo da San Francisco di California a Stoccolma, che oggi si chiama Oslo. E neppure sarebbe opportuno che io vi dicessi così d’un tratto che, ridotto alla miseria, ho fatto il lustrascarpe ad Atene, il toreador a Siviglia, il groom ad Anthibes, il cameriere a Vienna, l’attore cinematografico a Roma (un tempo era comunissimo fare l’attore cinematografico a Roma), l’acrobata a Berlino, l’impiegato di Banca a Budapest e il viveur a Belgrado. E che oggi, tornato alle origini, mi sono dato alla politica, nel senso che faccio parte di un importante «servizio segreto» di una grande Potenza europea. Una di quelle Potenze, che a Ginevra sono in prima linea nel predicare l’idea della pace e l’eguaglianza dei popoli di fronte al cambio della sterlina e del dollaro.
Non sarebbe opportuno, dico, anche perchè io ho cominciato con l’annunziarvi di aver fatto la conoscenza, nella traversata mediterranea, di un curioso tipo, il quale avrà pure la sua parte – e come! – nello svolgimento di queste mie commosse avventure.
È costui un levantino di Smirne, di origine senza verun dubbio olandese, come dimostrano il senso di pulizia personale e una certa flemma fiamminga, che neppure il lungo soggiorno in Oriente ha potuto snaturare. Dico questo, naturalmente, a profitto della pulizia, dacchè per quel che riguarda la flemma tutti siamo concordi nell’ammettere lo spirito contemplativo e beatamente statico che caratterizza gli orientali, quali da Sheharazade in poi abbiamo imparato a conoscere. Egli mi ha confessato di chiamarsi Nikola Cripopoulo e infatti ho veduto con i miei occhi i suoi biglietti di visita, che recano questo nome, con la qualifica in carattere aldino e inchiostro rosso di «chiromancien». Gli ho osservato che v’era stato in Inghilterra e precisamente a Londra, in Reading Street, un certo dottor Nikola, col cappa come lui, il quale pure esercitava una professione simile alla sua; ma egli, stralunando gli occhi, facendosi passare la lingua rossa tra le labbra gialle, e muovendo con rara abilità l’orecchio destro, mi ha giurato, dopo aver sputato per tre volte in terra, di non averlo mai conosciuto e di non ritenere assolutamente che potesse essergli comunque padre. E poichè ha subito compreso che io non avevo elementi per dimostrargli la falsità delle sue affermazioni, – nè lo avrei fatto del resto, perchè la mia attuale posizione mi impedisce di richiamare su di me l’attenzione con uno scandalo di qualsiasi genere, – non ha insistito. E messosi di nuovo sul capo un certo suo bizzarro cappello a staio, lucido, se vogliamo, per il troppo uso, ma circondato da un ragguardevole nastro rosso, listato di blu, mi ha chiesto se volevo permettergli di leggermi la mano. Alla mia nobilmente ferma negativa, Nikola si è seduto in terra – eravamo allora sul ponte di prua della nave, quel ponte bianco sul quale nessuno suole sostare, quando vi batte il sole – e ha tratto dalla tasca interna del suo abito a coda un mazzo sufficientemente pulito di carte francesi.