Olocausto. Alfredo Oriani

Olocausto - Alfredo Oriani


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alzate ancora? Non mi sano ingannata,—disse colla sua voce chioccia ed insinuante:—Uscite, signora Adelaide? Terrò io compagnia alla Tina finchè torniate, o verrà lei da me. La bambina non vuol quietarsi.

      —Ho detto alla mamma di comprarle dei cioccolatini; vedrete che si calmerà.

      —Allora andate, aspetteremo,—l'altra si affrettò a rispondere, tirandosi da parte per lasciarla passare; e l'ascoltarono discendere le scale con un passo così lieve che appena lo si udiva.

      * * *

      Appena furono nella cucina, la fanciulla andò al camino e bevve d'un fiato tutto quel bicchier d'acqua.

      L'altra guardava sempre coi grandi occhi grigi di gatto nel viso tondo e grasso dalle labbra sporgenti. Era vestita di un vecchio abito di flanella a righe scure, dentro il quale il suo corpo pareva insaccato; e infatti la carne le si ammassava ai fianchi sopra la guaina lenta della sottana, mentre le mammelle non sorrette dal busto cadevano mollemente sul ventre, confondendovisi.

      Con un gesto abituale si grattò sopra la fronte fra la discriminatura dei capelli.

      Ma Tina aveva paura di parlare dinanzi a lei che forse aveva già giudicato. Nella sua testa pesante pel digiuno quella disgrazia interrotta da un mirabile caso diventava quasi più dolorosa nella immutata certezza dell'indomani, e la fanciulla tornava a tremarne, come se ancora sentisse sul collo il soffio caldo di quell'uomo, che le frugava violentemente nel seno. Poi si ricordò la sua esclamazione: oh non hai nemmeno la camicia! provandone nuovamente la stessa vergogna, più acuta forse che di essere stata così fra le sue braccia, quantunque egli dovesse avere già prima indovinato tutta la loro miseria.

      Ma anche la miseria ha limiti, oltre i quali il suo dolore raddoppia.

      Le sfuggì un sospiro.

      La signora Veronica disse:

      —Dove è andata la signora Adelaide? Al Pavone?

      —Sì.

      —Ditemi che cosa le avete ordinato.

      —Io! nulla.

      —Avete torto di trattarvi così; al mondo bisogna stare meno peggio che si può, adesso mangerete, appena torni la signora Adelaide. Vedrete che sa scegliere.

      Dall'altro appartamento si udiva sempre il pianto sommesso della bambina. La piccola voce non cresceva, non diminuiva, simile a quella di un rivolo, che s'ingorghi in una chiavica; ma forse per questo la fanciulla ne provava una impressione sempre più penosa.

      —Che cosa ha stasera Bettina?

      —Il solito.

      —Povera piccina!

      —Che cosa volete farci? Io non ci posso nulla, ma finirà coll'addormentarsi per qualche ora lasciandomi dormire. Oggi le avevo fatto una zuppa col latte, che le piace; non l'ha voluta.

      —Non si può mangiare certe volte.

      —Eppure non serve a nulla star digiuni, perchè dopo vi sentite peggio. Vedete, io soffro di vedere così la mia bambina, ma mi faccio forza a mangiare quando ne ho, altrimenti se non mangiassi che cosa accadrebbe? Mi ammalerei anch'io e non potrei più aiutarla. Bisogna essere ragionevoli.

      Parlava adagio scandendo le sillabe, e la sua fisonomia pareva buona malgrado l'egoismo delle parole.

      Tina la conosceva sin dal primo giorno, nel quale era diventata la loro vicina, e non l'aveva mai veduta esaltarsi davanti al lungo atroce martirio di quella creaturina, che espiava così i vizi del padre. Anzi la signora Veronica lo aveva subito spiegato col suo accento tranquillo: ella era senza colpa di quel male di quella miseria, nella quale avevano dovuto cascare; perchè dunque se ne sarebbe arrovellata soffrendone maggiormente? Poi la bambina non poteva vivere, i medici stessi lo avevano assicurato. I rimedi, se avesse potuto comprarli, non le sarebbero stati di alcun giovamento; valeva dunque meglio spendere altrimenti quei danari, qualora capitassero.

      Tina si alzò.

      —Dove andate?

      —A vederla.

      L'altra tacque.

      Allora, davanti a quella indifferenza, l'orgasmo le cadde: tornò a sedersi. Ma Tina si avvide che l'altra la scrutava con quegli occhi grigi, pieni di una luce fredda. Infatti il viso della fanciulla era così alterato che sarebbe stato impossibile non accorgersene: tratto tratto dal fondo delle sue pupille azzurre una fiamma dardeggiava come sotto un soffio; aveva le labbra livide e il seno le ansava. Adesso l'ombra di quei due cerchi sotto gli occhi le si allargava per le guance, confondendosi colla oscurità della bocca.

      Nessuna delle due parlava più.

      La ragazza sentiva che l'altra non avrebbe potuto accettare il racconto di quella inverosimile fortuna: d'altronde la cosa avverrebbe egualmente; domani, posdomani? Come spiegare la cena, che la mamma avrebbe portato fra poco? Anzi tale elemosina troppo grossa diventava un nuovo motivo d'incredulità, mentre domani un altro, il secondo, non farebbe certamente così: e allora? La sua testa si confondeva, il sangue tornava a batterle sul cuore con lunghe onde spaventate.

      Tina distinse lo scalpiccìo della mamma.

      Appena nella cucina la signora Adelaide respirò rumorosamente, ma ansimava: dal tovagliolo chiuso nel suo pugno colle quattro cocche riunite un odore vaporava sottilmente.

      —Buono!—esclamò la signora Veronica, levando il naso all'aria.

      —Vedrai, Tina,—rispose la mamma con una certa volubilità nella voce,—vedrai che bella costoletta sono riuscita a portarti. Era l'ultima, a quest'ora, che restasse nella cucina, poi vi ho fatto io stessa un contorno di patate arrostite nella leccarda col ramerino. Guarda: ho anche una doppia porzione di maccheroni e del lesso di manzo.

      —Non vi sarete già dimenticata i cioccolatini?

      —Ti pare?

      E trasse da una tasca profonda della sottana una bottiglietta bianca, piena di un liquido rosso.

      —È alchermes, ne berrai un sorso dopo cena, perchè il vino non è gran cosa: però ho dovuto pagarlo in ragione di quarantadue soldi al fiasco. I ladri! scommetto che non ne costa loro più di venti.

      Ma Tina si era già alzata, prendendo dal tavolo il piccolo cartoccio dei cioccolatini.

      —Dove andate?—la fermò la signora Veronica:—Bettina si è quetata.

      Infatti era vero. Allora le due donne apparecchiarono la cena, distesero una mezza tovaglia abbastanza bianca, trovarono dei piatti, dei bicchieri, delle posate; nel mezzo della tavola il tovagliolo copriva ancora colle punte riunite tutta la cena, solo il pane ne rimaneva fuori, una grossa pagnotta dorata, che la signora Adelaide aveva portato sotto il braccio.

      —Andiamo, signora Veronica,—disse la mamma,—favorite con noi: c'è poco da assaggiare, ma qualche cosa c'è.

      La signora Veronica fece un gesto dignitoso di riserbo, ma l'altra, che la conosceva, le spinse innanzi un piatto colla posata migliore, poi accarezzò la testa di Tina. Evidentemente la testa scottava, perchè alzò subito la mano e una incertezza le passò sulla faccia pallida: la sua fronte si curvò un'altra volta umilmente.

      Tina, col capo appoggiato sulla palma sinistra, guardava nel vuoto.

      —Adesso bisogna cercare dentro il tovagliolo,—proruppe allegramente la signora Veronica;—non basta aver capito dall'odore. Volete che faccia io? Una volta ci avevo un certo garbo.

      E senza attendere il permesso sciolse le punte del tovagliolo.

      —Tò! anche degli aranci, me n'ero accorta al profumo. Vedete, Tina: il lesso grasso e magro, questo è davvero una cosa eccellente, perchè è proprio un pezzo di lombata: così freddo è anche migliore. Invece i maccheroni bisogna mangiarli subito, altrimenti nell'agghiacciarsi perdono il sapore, e poi si aggrumano. Ne convenite, signora Adelaide? Avete però scelto bene. Oh! Oh!—seguitò levandosi in piedi dalla meraviglia


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