Novelle. Edmondo De Amicis

Novelle - Edmondo De Amicis


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dicevamo fra noi stessi: — Sì, sì, verremo; ma per ora lasciateci in pace! —

      Poi, ciascuno secondo la sua indole, le sue abitudini e i suoi disegni, ci dicevamo i reggimenti, le provincie, le città, in cui avremmo preferito d'esser mandati. V'era chi desiderava lo strepito e l'allegria dei grandi carnovali di Milano, e non sognava che teatri e balli e rumorose cene di amici. V'era chi sognava un villaggio ameno della Toscana, sulla cima d'una collina, dove poter godere una bella e quieta primavera, coi suoi trenta soldati, raccogliendo proverbi e stornelli dalle contadine dei dintorni. Altri avrebbe voluto esser mandato in un forte solitario delle Alpi, fra le rupi e i burroni, per potervi ripigliare i suoi studii con raccoglimento profondo. Uno prediligeva la vita avventurosa nelle foreste delle Calabrie, un altro lo spettacolo d'una grande e operosa città di mare, un terzo un'isoletta del mar Tirreno. Ce la ricorrevamo e spartivamo tutta, questa Italia, un pezzo per uno, cento volte al giorno, come avremmo fatto d'un nostro giardino; e ognuno di noi raccontava agli altri le meraviglie del suo cantuccio, e trovavamo che eran tutti belli e cari ad un modo. E poi, la guerra! Si sarebbe ben dovuta fare una volta! Bastava il proferir questa parola per buttare i libri in un canto e cominciare a dire e a dire, alzando gradatamente la voce, ed accendendoci in viso. Per noi la guerra era come una visione sovrumana, in cui la mente si perdeva con una specie di ebbrezza fantastica; era un lontano orizzonte color di rosa, sul quale si disegnavano i profili neri di montagne gigantesche; e su pei fianchi delle montagne salivano con impeto schiere interminabili colle bandiere spiegate, al suono di musiche allegre; e fra le migliaia degli assalitori, sui punti più culminanti, spiccavano le nostre figure nette e distinte, lungo tratto innanzi a tutti, colla sciabola brandita in alto; e sulle chine opposte un precipitare spaventevole di soldati, di cavalli, di cannoni, verso un abisso ignoto, tra le tenebre. Una medaglia al valor militare! Ma chi non l'avrebbe avuta? Perdere la battaglia! Ma gl'taliani potevan perdere? Morire! Ma che c'importava di morire? E si poteva poi morire, noi, a diciannove anni! Chi sa che strani e meravigliosi casi ci aspettavano! Chi sa che cosa avremmo veduto! Una spedizione lontana, forse; una guerra in Oriente; non era mica morta la questione di Oriente; chi sa! E si spaziava coll'immaginazione per mari e monti, e si vedevano grandi apprestamenti d'eserciti e di flotte, e si ardeva d'impazienza, e si diceva in cuor nostro: Oh! aspettate, lasciateci dar l'esame, pochi giorni ancora, vogliamo venire anche noi! —

      E finalmente si diedero gli esami, fummo promossi, e una bella mattina del mese di luglio ci apersero le porte del Palazzo ducale, e ci dissero: — Al vostro destino! — e noi, gettando tutti insieme un altissimo grido, ci slanciammo fuori, e ci sparpagliammo, come uno stormo di uccelli, per tutte le parti d'Italia.

       Indice

      Ed ora?

      Son passati sei anni, sei anni soli, e già ci sarebbe da scrivere un romanzo lungo e vario e strano, se si volessero raccogliere e legare insieme le vicende più notevoli occorse nella vita di quei duecento compagni! Io che in questo spazio di tempo ne vidi molti ed ebbi modo di procurarmi notizie degli altri, soglio sovente richiamarmeli tutti alla memoria, ravvivarmene le immagini e interrogarli ad uno ad uno; e quello che vedo e sento mi desta sempre nell'anima un sentimento di meraviglia, misto di malinconia. Ed eccoli qui in folla, tutti.

      Quelli che mi dan nell'occhio prima degli altri son certi uomini bruni e barbuti, con un par di spalle poderose, che io non ricordo, pel momento, d'aver conosciuti. Eppure mi sorridono, e sì, son veramente quei giovanetti sottili e bianchi, che parevano fanciulle. Io domando: — Siete voi? — ed essi mi rispondono: — Sì; — e io do un passo indietro, sorpreso da quel sì sonoro e profondo, in cui non riconosco più l'antica voce infantile. — E quest'altri? I lineamenti, in questi, non son mutati, le forme son sempre quelle, ardite e robuste; ma il sorriso è sparito, e gli occhi non scintillano più. — Che vi è occorso? — domando. — A noi? — rispondono; — nulla. — Oh avrei preferito che vi fosse accaduto qualcosa, per non vedere che il tempo, e un tempo così breve, può di per sè mutare un volto in quel modo. Eccone altri. Dio mio! anche questa mi tocca a vedere; uno, due, tre, cinque, possibile! lasciatemi guardar meglio; ma certo! capelli bianchi! a ventisette anni i capelli bianchi! — Dite, o come mai? — Danno una scrollata di spalle, e tiran via. Poi vedo una lunga fila di amici miei, e molti, fra essi, dei più scapati, chi con un bambino in braccio, chi con uno per mano, chi con due. Quello lì ha preso moglie? Quello là è padre di famiglia? Ma chi l'avrebbe creduto? — Altri sopraggiungono: alcuni col capo basso e gli occhi rossi mi fanno un cenno; hanno un nastro nero intorno al braccio. Altri passano colla fronte alta volgendo intorno uno sguardo raggiante, e toccandosi il petto col dito: ah! il sogno delle nostre notti di collegio, la medaglia al valor militare, fortunati loro! Altri vengono innanzi a passo lento, pallidi, scarni, appena riconoscibili. — Che cos'è? Che cosa avvenne? — Ahimè! Su quelle braccia e su quelle gambe erculee, ch'essi ostentavano con giovanile alterezza sulle rive del Panaro; in quelle membra tornite e rosee, che pareva non avrebbero dovuto impallidire nè avvizzirsi mai; in quei corpi, che si sarebbero potuti prendere a modello per rappresentare la salute, la freschezza e la forza, ahimè! s'immersero i coltelli dei chirurghi a cercare le palle tedesche, e dalle carni lacerate sgorgò il sangue a ondate, e caddero le ossa recise. Poveri amici! Ma pure son rimasti tra noi a raccogliere nell'affetto e nella gratitudine comune il premio del loro sacrificio. — Ma dov'è il tale? — Morto in una marcia in Lombardia. — Il tal altro? — Morto d'una ferita di mitraglia a Monte Croce. — E quell'altro amico? — Morto d'una ferita di palla nell'Ospedale di Verona. — E il mio vicino di banco? — Morto di colèra in Sicilia. — Oh basta! non mi dite di più! —

      Son passati tutti, s'allontanano, ed io mi slancio colla immaginazione dalla parte opposta, sulla via che hanno percorsa, per cercarvi le traccie del loro passaggio; e quante ne ritrovo, e quanto diverse! Qui libri e carte sparse in terra, con su i concetti di battaglia tracciati a mezzo, c versi coperti di freghi; un tavolino capovolto, e un mozzicone di candela ancora fumante; i segni d'una veglia studiosa. Là seggiole spezzate, frantumi di bicchieri e brani di vestiti di donna sparpagliati. Più in là, in uno spazio di terreno nudo, due sciabole insanguinate, e da una parte e dall'altra molte orme profonde e nel mezzo un'impronta grande, come del corpo di un uomo caduto. Qua, nella polvere, un tappeto verde lacerato, e intorno carte da gioco e dadi. Più oltre, tra l'erba, una letterina profumata e un mazzetto di mammole appassite. Da un altro lato una croce con sopra scritto: — A mia madre. — E innanzi, innanzi, altri libri sparsi, altre lettere, altre carte da gioco, divise militari smesse, ritratti di donne, conti di sarti, cambiali, sciabole, fiori, sangue. Oh che vasta tela tesse la mente con quei pochi fili scompigliati e rotti! Quanti affetti, quanti dolori, quante lotte, quante pazzie, quante sventure s'intravvedono e si comprendono! Certo anche molte virtù e molti atti generosi; ma quanto più spreco di forza e d'avvenire!

      E quando pure non si fosse sciupato nulla, quando non si fosse, in questi sei anni, tolto un giorno nè un'ora al lavoro, quando non avessimo aperto il cuore ad altri affetti che a quelli che innalzano la mente e rasserenano la vita, avremmo pur sempre perduto una grande e cara illusione, la quale dileguandosi, ha portato con sè una parte della nostra forza e del nostro avvenire: l'illusione di quel lontano orizzonte color di rosa, su cui si disegnavano i profili neri di montagne gigantesche, e schiere interminabili lanciate all'assalto a bandiere spiegate, al suono di musiche allegre.... Una guerra perduta!

      E s'anco non avessimo perduto quest'illusione, non avremmo perduto altro?

       Indice

      Io penso a me stesso, e dico: — Quale distanza da diciannove anni a venticinque! Allora, dovunque andassi, ero il più giovane, chè i più giovani di me non mostravano ancora il viso tra gli uomini; e non mi vedevo mai intorno alcuno, di cui non potessi dire che qualcosa m'invidiava: la gioventù, l'allegria, le speranze. Ed ora, dovunque io vada, mi veggo accanto dei giovanetti che mi guardano e mi parlano con quel riserbo rispettoso che s'usa coi fratelli maggiori; e con essi, discorrendo, sento di dover fare uno sforzo per dare al mio discorso una


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